![]() Riassunto degli argomenti presentati nell'intervista realizzata da Nicole Volta per il programma Pantheon, e andata in onda su Rai 3 l'1 dicembre 2024. Marco Focchi Nell’Orlando furioso Ariosto mette in scena una magnifica teatralizzazione della follia attraverso la figura letteraria del nobile cavaliere, splendido guerriero, eroe di mille battaglie che, perdendo il senno, nudo e abbruttito, vaga sradicando alberi, smembrando animali, dando corso a una collera delirante, a una frenesia senza argini devastando e distruggendo ogni cosa che incontra. Tutto, in Ariosto, è finalizzato alla bellezza del canto, e nessuna esagerazione è eccessiva al servizio dell’immagine poetica. Possiamo dire però che c’è anche un aspetto realistico nella descrizione ariostesca, se pensiamo ai berserkr, guerrieri nordici che, mossi da un’ispirazione divina, mostravano una forza straordinaria e compivano stragi indescrivibili e, bisogna sottolinearlo, le compivano nei propri accampamenti, non in quelli avversari. Un analogo moderno di questo modello lo possiamo trovare nelle stragi indiscriminate in America di cui, più spesso di quanto non vorremmo, leggiamo nelle cronache.
Si tratta tuttavia di situazioni eccezionali, che non hanno nulla a che vedere con l’aspetto sotto il quale consideriamo la follia dal punto di vista clinico. Nel lavoro clinico vediamo piuttosto persone sofferenti, alla deriva, bisognose di aiuto. Sarebbe molto più semplice aiutarle se potessimo saltare in groppa al cavallo di Astolfo e trovare il loro senno sulla luna. O, versione moderna, se avessimo un farmaco magico in grado di restituire loro la ragione. In realtà, quel che si tratta di ritrovare sono le parole, quelle attraverso cui ricollegarsi a un mondo che, nella follia, si distorce, si disgrega, si smarrisce. Parlando del poema di Ariosto mi è stato spesso domandato se l’amore possa portare ciascuno di noi a comportamenti irragionevoli, a smarrirci nel desiderio dell’altro. Possiamo prendere la questione da questo lato: in realtà, nell’amore il soggetto è sempre mancante, l’amore è povero, è ferito. Lo vediamo già in Platone, dove amore è figlio di Poros, l’espediente, e di Penia, la povertà. In Ariosto è altrettanto chiaro: Angelica è desiderata dai cavalieri più potenti e forti dei due schieramenti, da re, da conti, duchi, possessori di ricchezze e di palazzi, e di chi s’innamora Angelica? Di un povero fante ferito in battaglia. Proprio perché l’innamorato non ha niente, può dare solo se stesso e smarrirsi nell’altro. Questo fa sì, d’altra parte, che l’amore non corrisposto sia una rovina, una disperazione, una desolazione, o una collera irrefrenabile, una furia cieca, come per il povero Orlando. C’è una formula che mi sembra particolarmente efficace nel poema di Ariosto: quel che si vede, l’amore lo rende invisibile e fa invece vedere quel che è invisibile. L’amore è come un operatore di conversione tra visibile e invisibile. Questo grano di saggezza Ariosto lo fa cadere nella scena in cui Angelica sta fuggendo da Rinaldo, innamorato pazzo di lei, e s’imbatte in Sacripante altrettanto innamorato di lei. Angelica pensa allora di farsi proteggere da Sacripante contro Rinaldo, e tenta di rabbonirlo dicendogli che fino a quel momento è stata in custodia di Orlando senza che questi l’abbia mai toccata, e Sacripante, stranamente, crede alle sue parole. Sarà – dice Ariosto – ma per chi ha senno non sembra molto credibile, e Sacripante non era in effetti tanto in senno proprio perché innamorato di Angelica. Ma c’è anche il caso inverso, dove amore fa vedere l’invisibile. In effetti quando l’innamorato elegge la persona amata, la rende ineguagliabile: non c’è nessuno come lei, o come lui. L’amata è fuori dalla catena delle equivalenze, quelle che incontriamo nel mondo degli scambi, e di lei appaiono solo le virtù, le bellezze, che anche se sono nascoste risultano ben visibili solo agli occhi dell’amante. C’è quindi una strana follia che ci prende quando siamo innamorati, infatti usiamo l’espressione “impazzire d’amore” proprio per indicare lo stato fuori dal comune in cui mette la condizione amorosa. L’amore ci può far fare follie, anche se non possiamo propriamente dire che sia causa di psicosi, cioè di follia in senso clinico. C’è però nella scena in cui esplode la follia di Orlando, un crescendo straordinario che, oltre a coinvolgerci nella sua bellezza letteraria, ci può forse dire qualcosa anche dal punto di vista clinico. Orlando giunge nel luogo in cui si sono consumati gli amori di Angelica e Medoro e vede le scritte che i due hanno lasciato. Quel che legge gli sembra talmente impossibile che rifiuta di crederci. Siccome la cosa più sicura del mondo per lui è che se Angelica ama qualcuno, non può amare che lui, allora quel nome inciso “Angelica” non può riferirsi alla sua Angelica. Poi legge la scritta di Medoro lasciata in arabo, che lui capisce benissimo, dove si cantano le lodi di Angelica, figlia di Galafrone, e allora non c’è più dubbio, è proprio lei. E tuttavia ancora non può essere: si tratta senz’altro di qualcuno che vuole denigrare il nome della sua amata o farlo morire di gelosia. Legato a una speranza tenue, va a cercare ristoro, capitando proprio nella casa del pastorello dove Angelica e Medoro avevano consumato la loro unione, e il pastorello, che lo vede così abbattuto, pensa di tirargli su il morale raccontandogli una bella storia d’amore, quella dei suoi precedenti ospiti. E a coronamento della storia, a riprova della verità di quel che gli ha detto, gli mette in mano la gemma che Angelica gli ha lasciato a compenso dei suoi servigi. L’irreparabile succede qui, perché la gemma era in realtà il pegno d’amore che Orlando aveva dato ad Angelica, era un dono, un oggetto estraneo al circuito degli scambi. Un dono è infatti sempre impregnato anche dalla personalità del donatore, crea un legame, e dà un potere enorme a chi lo riceve. Così Orlando vede questo pegno d’amore, questo oggetto prezioso, diventare un oggetto ordinario, cadere dal circuito del dono, dalla dimensione privilegiata dell’elezione, dei sentimenti, a quello anonimo degli scambi, del commercio. Qui allora si spezza un legame simbolico essenziale, e la ragione non tiene più. Possiamo quindi dire che se non è l’amore a far impazzire Orlando, è la rottura di un elemento simbolico fondamentale che lo fa uscir di senno, e questo è in effetti quel che accade nell’insorgenza della follia in senso clinico. Nessuno tuttavia impazzisce per amore se non è già, in modo latente, pazzo, cioè se un anello simbolico fondamentale nella catena del legame non è già molto labile, o fortemente incrinato. L’ipotesi allora, facciamola per giocare un po’ con Ariosto, è che Orlando avesse già qualche vite lenta in testa, e che l’amore gli abbia dato il colpo di grazia
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