Marco Focchi Il segno del rigetto Nella lettera del 1974 agli italiani Lacan pone l’accento su ciò che costituisce la condizione perché ci sia analista: funziona come analista – scrive – solo colui a cui viene il desiderio di esserlo. Per il fatto stesso però che gli viene questo desiderio si trova a essere rigetto dell’umanità. Sappiamo, per un verso, che il rigetto è per Lacan una connotazione dell’oggetto, quindi è il marchio di questo che occorre fare sentire nell’esperienza della passe. Ci sono le diverse traversie,– le “avventure” dice Lacan – che il candidato ha avuto e che hanno lasciato in lui un segno. Questo segno deve essere riconoscibile, e l’esperienza di passe deve poterlo individuare, ma l’importante è vedere che questo segno non è un significante. Dovremmo, credo, far intervenire qui la differenza tra significante e lettera. Quest’ultima non entra nel tipo di funzionamento in cui un significante si articola con un altro significante, in cui S1 rimanda a S2 producendo un effetto di senso. Il segno da individuare qui ha piuttosto il carattere della lettera, della marca che contrassegna l’oggetto, della scrittura sul corpo che si imprime nelle esperienze fondamentali della vita. Si delinea così quel tratto incancellabile che appare semplicemente come segno di godimento. Separare il grano dal loglio
L’analisi deve aver in qualche modo fatto sentire, a chi ne ha traversato l’esperienza, il segno del rigetto. Non è tuttavia sufficiente perché Lacan introduce qui un termine singolare, che non ci si aspetterebbe di trovare sotto la sua penna. È il termine entusiasmo: una volta approdato alla singolarità del proprio essere rigetto, l’analista deve esserci portato sino all’entusiasmo, scrive Lacan, perché senza questo può ben sì esserci stata analisi, ma non c’è traccia d’analista. Sembra una diagnosi severa, fondata poi su un termine che rimanda all’ispirazione, a uno stato di esaltazione prodotto dalla certezza di possedere il vero o il bene. Ci si sposta quindi su un terreno molto lontano da quello quadrettato dal sapere. Perché con il sapere l’analista deve tuttavia avere a che fare. C’è il sapere della scienza, che è un sapere del reale, e quello dell’analista, che è diverso, ma che al tempo stesso deve tener conto del precedente. Come però? Qui c’è una frase di Lacan non facile da tradurre: l’analyste, s’il se vanne du rebut que j’ai dit… Si tratta di una metafora agricola: nella trebbiatura si sceglie il grano e si scartano i cascami, la pula. È insomma quel che si dice separare il grano dal loglio. Il buon grano viene raccolto e messo da parte, la pula viene gettata, è il residuo, lo scarto. Rispetto al sapere, raccolto dalla scienza, all’analista resta d’essere la pula. C’è quindi un rapporto con il sapere, ma nel senso che il crivello lo separa da lui facendo di lui un rigetto. Come la pula è lo scarto del buon grano, l’analista è il rigetto del sapere, rispetto al quale viene a mettersi da parte. Occorre dunque che abbia in sé il reticolo dell’articolazione di questo sapere per potersene separare, per poter dar conto del punto in cui la scrittura di questo sapere viene meno facendo affiorare l’inesistenza del rapporto sessuale. Se il sapere della scienza è un sapere referenziale sul reale, il sapere psicoanalitico porta al limite estremo la funzione del sapere facendone il contorno di un buco. Dove per la scienza il sapere è indice di qualcosa, nella psicoanalisi è segno di un’assenza. L’entusiasmo e i suoi detrattori Che parte ha allora l’entusiasmo in tutto questo? Da sempre l’entusiasmo è la bestia nera di tutti i razionalisti, gli empiristi, gli illuministi. Ma dove s’interrompono le catene della ragione, punto in cui Freud si trova nell’impasse denunciata in Analisi terminabile e interminabile, dove l’uomo arretra di fronte alla castrazione e la donna gira a vuoto intorno al Penisneid, Lacan cerca e trova il punto di passaggio, il punto di passe. L’uscita dal lutto e il desiderio dell’analista Nel corso dell’analisi l’analista ha sostenuto la posizione d’oggetto per l’analizzante, intrattenendo il suo desiderio. Si capisce dunque come nel momento terminale – quando il sapere contorna un buco, quando cioè appare chiaro che nessun oggetto supplisce la mancanza – si verifichi un senso di perdita, e che questa perdita sia sentita come un lutto. Abbiamo qui il tipico effetto che porta alla posizione depressiva di fine analisi, segnalato da Lacan in diversi scritti, in particolare, e con particolare chiarezza, ne L’étourdit. Scrive infatti qui che l’analista, ridotto a oggetto a, persiste, dopo il distacco, a causare il desiderio in maniera piuttosto maniaco-depressiva. Abbiamo allora la famosa posizione depressiva di fine analisi descritta inizialmente nella Proposition du 9 ottobre 1967. La precisazione che si aggiunge ne L’étourdit è si tratta non solo di un effetto depressivo, ma maniaco-depressivo. Conosciamo bene sul piano clinico i contraccolpi maniacali del lutto, e Lacan riprende a questo proposito un’osservazione clinica di Michael Balint quando questi descrive l’effetto di esultanza che si verifica in un successo terapeutico a conclusione del lutto. Direi quindi che quando nella lettera agli italiani Lacan introduce questo riferimento all’entusiasmo, sullo sfondo c’è l’esperienza del lutto e dell’effetto depressivo. L’entusiasmo non è allora quell’ottenebramento della ragione descritto dai filosofi razionalisti, ma l’indice del fatto che il soggetto è giunto a una riva estrema della sua esperienza, che ha toccato una meta al di là della quale il sapere, spinto al limite, parla solo di una perdita. Si differenzia così dall’ottundimento in cui si annebbia la spina intelligente, per presentarsi come indice dell’insuperabile chiarezza dove il buco nel reale non è compensato dall’idealizzazione del rituale funerario che accompagna il lutto, ma è un compimento, la caduta di ogni ideale. A questo si affianca lo slancio in avanti di un desiderio non più proiettato all’inseguimento di una Nefele pronta a svanire non appena si cerchi di afferrarla, ma reso disponibile a investirsi come desiderio dell’analista, in modo che l’analista possa occupare la posizione di oggetto a per un altro che potrà con lui a sua volta svolgere la propria analisi.
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