![]() DOVUNQUE ALTROVE I topoi freudiani e il problema del soggetto nel pensiero psicanalitico Amelia Barbui e Marco Focchi Capitolo settimo PADRE PADRONE E PADRE LENONE L’esempio precedente pone in evidenza l’antitesi tra la posizione padronale e quella analitica: dove il padrone maschera l’impossibilità di controllare l’inconscio dietro l’ideale, l’analista la mette in gioco nel desiderio. Queste posizioni corrispondono ai due versanti del fantasma: quello immaginario, dove la mancanza è velata da i(a), e quello attraverso cui il soggetto si affaccia al reale, dove la mancanza è fissata nel desiderio. Nel fantasma il significante dell’ideale, sostegno delle identificazioni del soggetto, ha il proprio risvolto in un godimento sconosciuto che, l’abbiamo visto per l’uomo dei topi, può rivelarsi al culmine dell’angoscia. Nell’esempio precedente abbiamo considerato le difficoltà che si presentano nella conduzione della cura se l’analista vacilla dal desiderio all’ideale. Vogliamo ora osservare, attraverso un frammento clinico, l’antitesi tra desiderio e ideale nella struttura soggettiva. La donna dei biancospini
Una donna sogna che sta preparando un mazzo di fiori a cui aggiunge, per completarlo, un ramo di biancospino. Lo mostra a un’amica che, ritraendosi di scatto, le dice di far attenzione perché nel mazzo c’è una biscia che agita la lingua come volesse pungerla. Se ne accorge inorridendo, e pensa con disgusto che preparando il mazzo può averla inavvertitamente toccata. La prima associazione che le viene in mente riguarda il biancospino. Nel paese di campagna dov’è nata c’era infatti una strada costeggiata di biancospini che conduceva verso casa. Ricorda un pomeriggio d’estate, quando era molto piccola; la zia la stava accompagnando a casa in una carrozzina. Era sistemata tra un cumulo di cuscini, disposti evidentemente per la sua comodità, ma che non assolvevano affatto alla funzione di farla stare a suo agio per cui, senza por di mezzo indugi, afferrava quelli che le sembravano di troppo e li gettava dalla carrozzina. La zia, paziente, li raccoglieva risistemandoli al loro posto e la rimetteva a sedere nella posizione precedente senza incontrare però il consenso della bambina, che ricominciava di lì a poco le sue operazioni di sgombero. La scenetta si ripetè un certo numero di volte, quante bastò a far perdere la pazienza alla zia. La bambina si prese così uno scrollone e ricevette una solenne sgridata. Solo allora si chetò. Ma appena arrivate a casa il padre si accorse subito che qualcosa non era andato per il verso giusto. Interrogata, dopo qualche reticenza, la zia confessò il misfatto di aver rimproverato la nipotina e di averla forse persino sculacciata. Ritenendosi il solo investito della missione educativa della piccola, il padre si irritò oltremodo, proibendo alla zia ogni ulteriore intervento pedagogico. Nella grandezza luminosa del mito infantile, il padre si staglia in questo ricordo in veste di paladino, figura rassicurante che prende le parti della bambina al di là della ragione o del torto. La paziente infatti non nasconde la propria responsabilità nell’episodio dei cuscini. Riconosce anzi nel proprio gesto un tentativo di provocazione nei confronti della zia. La sfida isterica è volta a provocare il desiderio dell’altro, la sua mancanza, e in ultima istanza a rivelare la sua inaffidabilità. La zia media così una partita giocata tra la bambina e il padre dove si tratta di misurare fino a che punto è possibile contare sulla protezione del padre sfidandone la legge. L’affronto fatto alla zia con il lancio dei cuscini è in realtà una provocazione al padre che sulle prime non mostra di essersene avveduto. Il padre paladino è dunque cieco? Gliela si può fare sotto il naso? L’altro elemento da cui parte una nuova catena di associazioni dice di no. La biscia le evoca infatti una salamandra la cui immagine affiora da un periodo della vita trascorso in un collegio in Germania. Come d’uso in simili luoghi di reclusione, divideva quasi esclusivamente con le compagne, e con alcune in particolare, il proprio tempo libero; ore spese in lunghe conversazioni durante le quali i segreti della loro femminilità adolescente si aprivano alla confidenza. Le esperienze, i pensieri, i timori, nati nell’intimità, si confrontavano riflettendosi nei racconti e illuminandosi reciprocamente. Una giovane cinese, forse per le sue origini lontane, le era particolarmente vicina nella comunione spirituale di questo gineceo di vestali. Fu lei a soccorrerla una notte quando si svegliò nel marasma di un incubo. Ora ricorda soltanto l’immagine terrificante di una salamandra sotto la quale la sua esistenza si annientava. Attingendo alla propria saggezza orientale, fondata su una capacità di immedesimazione femminile discretamente disponibile anche in Occidente, la cinesina, senza ausili freudiani, interpretò repentinamente il sogno: «Vedi – le disse – la salamandra significa la tua paura degli uomini. Per questo cerchi sempre di evitarli, perché li temi. Però – aggiunse con brevità sentenziosa – vedrai che uno ti becca». Queste parole, che riportarono un po’ di calma nell’animo turbato dell’amica, si rivelarono profetiche. La paziente incontrò infatti, poco tempo dopo, un connazionale che viveva di attività non del tutto pulite, e fu lui a «beccarla». Al losco individuo fece dono delle proprie grazie, fantasticando che costui l’avesse irretita con l’inconfessato progetto di immetterla nel grande mercato della prostituzione del Nord. Il protettore cui faceva ora ricorso nella sua fantasia adolescenziale era certo meno nobile del paladino vendicatore dell’infanzia, ma in realtà ne rivelava soltanto l’altra faccia. La sequenza biancospino-biscia costituisce infatti la chiave interpretativa del sogno: sotto il biancospino, nel candore di questa innocenza, si rivela il padre-paladino, il padre ideale che la salva, la tutela difendendola dagli interventi della zia. Sotto la biscia si nasconde invece l’uomo che l’ha «beccata», l’uomo che ha goduto di lei, anch’egli protettore certo, ma con fini di sfruttamento lontani dalla disinteressata purezza metaforizzata nel bianco del biancospino. Le due immagini di protettore sono tuttavia aspetti di una stessa figura: la biscia è già presente nel biancospino, a cui appartiene non solo l’innocenza candida dei fiori, ma l’insidia non trascurabile delle spine. Raccontando il sogno aveva detto infatti di temere non il morso della biscia, ma la sua puntura. Un modo forse improprio di esprimersi se parliamo di serpenti, ma decisamente più appropriato a rendere l’idea, contenuta nel testo latente del sogno, di una penetrazione violenta e mitica nella sua indifesa carne verginale. Il bifido accostamento biancospino-biscia, abbracciando la rorida freschezza di un mazzo di fiori, suggerisce l’immagine di deflorazione brutale, matrice della sequenza intorno a cui si è sviluppato il destino della donna: ciò che si accinge a donare le viene estorto con la forza. Il protettore-paladino nasconde già in sé il protettore-sfruttatore che si rivelerà quando l’amica del sogno le avrà aperto gli occhi. Le amiche hanno un ruolo chiave nella vita della donna. Abbiamo già visto la funzione svolta dalla compagna di studi cinese nel metterla in guardia dagli uomini, dobbiamo ora evocare il posto avuto da un’amica tedesca in un episodio piuttosto significativo. Il suo bieco amante stava preparando uno dei tanti viaggi verso il sud a cui lo impegnavano i propri traffici illegali, e lei avrebbe dovuto accompagnarlo. Dovevano questa volta fare un contrabbando di armi e varcare la frontiera con il pericoloso carico eludendo la sorveglianza delle guardie. Nel mezzo dei preparativi la donna sentì che avrebbe avuto paura e chiese all’amica di accompagnarla. Malgrado le apparenze giustificassero i suoi timori con i rischi che oggettivamente si apprestava ad affrontare, una piccola lacuna di memoria nel racconto rivela la fonte più segreta della sua apprensione, confermando l’intuitiva interpretazione della cinese. «Nell’allestimento del viaggio – dice – l’uomo aveva meticolosamente riempito la sua vecchia auto di ... come si dice? In tedesco è Patronen. Per questo – aggiunge – volli che l’amica venisse con noi: mi sarei sentita terribilmente imbarazzata se alla frontiera mi avessero fermata sola con lui e le Patronen». Avendo vissuto un certo tempo in Germania la sua confidenza con la lingua tedesca è naturale. Ma viveva ormai da molti anni in Italia e non ci sarebbe stata alcuna ragione per cui il termine Patronen venisse più prontamente disponibile sulla punta della lingua del termine «cartucce» se non l’equivocità attraverso la quale il vocabolo tedesco le consentiva di esprimere ciò che nascondeva a se stessa. Non sono infatti le Patronen, le cartucce, la causa della sua inquietudine, ma il Patron, che in tedesco significa sì il «patrono», il «protettore», ma al tempo stesso «un bel tipo», «un briccone», «un tipo infido». Patron condensa così i due sensi di «protettore» che il sogno esprimeva nell’accostamento biancospino-biscia. La presenza dell’amica ha infatti la funzione di placare la sua angoscia non di fronte all’occhio vigile delle guardie, ma di fronte al desiderio dell’Altro o, detto più concretamente, deve proteggerla dalla libidine dell’uomo che le sta accanto. L’amica funge da schermo fissando un punto di identificazione immaginario e la separa dalla manifestazione angosciante del godimento dell’Altro, emerso per la prima volta con l’incubo della salamandra. Il seguito della storia precisa infatti il ruolo dell’amica, che non è proprio quello di reggere il moccolo. Passata la frontiera i nostri tre avventurieri giunsero in una città lombarda distante pochi chilometri dal paese natale dove viveva la famiglia della paziente, e decisero di farvi tappa. Scelto un albergo non troppo caro, l’uomo chiese una sola camera con tre letti. Lei pensò che avrebbe dovuto chiedere una camera a parte per l’amica, ma non volle interferire nelle decisioni del suo fuorilegge. Tanto più che queste decisioni incontravano i suoi disegni segreti. Si era accorta infatti durante il viaggio che il Patron, il suo «bel tipo», faceva spudoratamente il filo all’amica e, afferma, aveva segretamente sperato che si mettesse con lei per liberarsene. La stanza era preparata con un letto matrimoniale per loro due e uno singolo per l’amica. Ma, sul far della sera, lei cominciò a manifestare una strana nostalgia di casa e del paese natìo così vicino. Una breve visita non avrebbe provocato ritardi nel loro ruolino di marcia. Comunicò allora ai compagni di viaggio il desiderio e la decisione di passare la notte a casa, presso la famiglia, e non incontrò obiezioni. Così i due trascorsero la pronuba notte soli nella stessa camera. Non volle mai sapere nulla e mai nulla domandò su quel che accadde quella notte. Fu un gioco alla cieca. L’unico indizio che qualcosa doveva essere successo si manifestò alla ripresa del viaggio, quando il lestofante azzardò una battutaccia con la tedeschina. Questa, abitualmente incline a una calma ponderata, contraddì il suo temperamento lasciando scattare i nervi che aveva a fior di pelle con una scrocchiante sortita di improperi proferiti nella sua ruvida lingua materna. Non dobbiamo pensare che la gelosia fosse un sentimento estraneo alla nostra paziente. Un aneddoto riguardante il cane-guida di un amico cieco che ha avuto particolare importanza nella sua esistenza è illuminante in proposito. La bestia, il cui carattere tenero, indifeso e distratto aveva in diverse occasioni paragonato al proprio, era stata colpita da un’artrite deformante che la rendeva inetta al proprio compito. Il cieco tuttavia la sfruttò fino all’ultimo, fino al punto in cui l’animale non fu quasi più in grado di reggersi in piedi e solo allora acquistò un altro cane. Ma con una decisione che agli occhi della paziente apparve il colmo della crudeltà, lo prese con sé mentre c’era ancora quello vecchio, che non mancò di produrre strazianti manifestazioni di gelosia. Anche il cieco ricade dunque nella serie dei Patron: quello che prima poteva sembrare un disinteressato affetto nei confronti del proprio cane rivela un volto crudelmente utilitario. Un’analoga oscillazione dal disinteresse all’interesse, manifestatasi nel momento in cui il loro legame si era trasformato da semplice amicizia a rapporto di lavoro, provocò la rottura definitiva. Come una costante si ripete nella sua storia la metamorfosi dell’amore in sfruttamento, e il conio di questa trasformazione viene dal rapporto con il padre. Oggetto di tutte le attenzioni nei primi anni di vita, fu soppiantata alla nascita di una sorella che con leziose moine seppe accativarsi la predilezione del genitore. Il suo destino è simile a quello del cane del cieco: senza essere allontanata vede svanire il proprio privilegio sentendosi accantonata come un limone spremuto. Ciò che prima faceva con piacere si tramuta in dovere, modificando anche il senso del passato: quel che appariva una libera scelta, la sua dedizione al padre, si spoglia del miraggio rivelando l’abuso. Il segreto della virata dal godimento alla frigidità per la nostra paziente, come per molte donne, risiede in un simile passaggio. Ciò che all’inizio è subìto passivamente viene utilizzato attivamente, come nella massima nietzscheana che esprime la riappropriazione del passato: tutto questo fu, ebbene: così volli fosse! L’intrigante sorella, pur restando oggetto di ininterrotta esacrazione, trova quindi un ruolo una volta ridefinita come figura di mediazione. Non è più semplicemente l’usurpatrice dell’amore paterno, ma è il parafulmini su cui si scarica la tempesta libidica del padre, diventando il prototipo di una serie in cui possiamo contare tra le altre la compagna di studi cinese e l’amica tedesca. L’ambiguità dei protettori maschili si proietta così in forma invertita sulle figure femminili che, da degradate militanti dell’esercito di Citera, vengono promosse alla dignità di numi tutelari. C’è in questi ribaltamenti una complessa dialettica. Nel ricordo della siepe di biancospino il padre ricopre l’ufficio di salvatore. Come avviene nel tipico passaggio edipico in cui il bambino si sente in balìa del capriccio del desiderio materno (la zia è nel nostro caso un sostituto) il padre impone la legge, emette la sentenza che forma il primo nucleo dell’ideale dell’io e il primo appiglio identificativo. Di fronte all’annullamento, provocato dal desiderio materno, esperito dal bambino, il padre offre una via d’uscita innalzando con le proprie insegne l’ideale che riveste la mancanza fallica e divenendo così il depositario del segreto del desiderio materno. Nella figura di padre padrone del desiderio si cristallizza l’ideale dell’isterica, che non perde occasione di metterne alla prova la capacità, la tenuta, la completezza, la forza. Per questo motivo si palesa ben presto l’altra faccia del padre padrone, che ha le sue inveterate radici nel fantasma di seduzione, e che nel nostro caso si tradisce nelle fattezze lascive del padre lenone. La continuità biancospino-biscia riproduce esattamente l’equivoco di un protettore che da padre padrone si rovescia in padre lenone. L’ideale si degrada svelando il godimento che non si premura di celare. Caduto l’ideale come schermo di protezione dal godimento dell’Altro, nel caso in esame, alcune figure femminili vengono innalzate al rango il cui posto è rimasto vacante. Nell’isteria i fantasmi omosessuali rimossi hanno all’origine tale inversione, e il cemento della «sorellanza» deriva dal processo di degradazione di un padre indegno caduto dalla tenerezza alla sensualità. Godimento/ideale Il manifestarsi di un godimento sconosciuto che si accompagna al cedimento dell’ideale è il fattore determinante nell’estrinsecarsi della nevrosi. L’uomo dei topi cade nei labirinti ossessivi dopo la rivelazione del godimento sadico nella tortura inflitta dal capitano crudele. L’inizio stesso dell’analisi è determinato dalla percezione di una minacciosa instabilità dell’ideale o dal suo improvviso subisso. Nel caso esaminato, per esempio, la donna iniziò l’analisi quando l’uomo che da anni era suo amante fisso e collaboratore nella professione, per un imprevedibile tracollo delle proprie finanze, cominciò con insistenza a rivolgerle pressanti richieste di aiuto economico. Si profilava una situazione analoga a quella che aveva prodotto la rottura dei rapporti con il cieco. L’affetto disinteressato e la generosa collaborazione rischiavano di trasformarsi in interessato sfruttamento per l’importuna intrusione del fattore denaro. Decise così d’iniziare l’analisi, realizzando un desiderio che da tempo accantonava con vari pretesti e dirottando le proprie risorse economiche in modo da mettersi in condizione di non opporre un rifiuto immotivato alle richieste dell’uomo. Nella nevrosi risulta insostenibile che l’Altro goda, e il rafforzamento degli ideali ha la funzione di eclissare, dissimulare, eludere questo godimento sconveniente e generatore di angoscia. Tuttavia il nevrotico si ammala né più né meno che per l’insostenibilità dei propri ideali. Freud se ne era accorto sin dagli inizi, nel suo scritto sulla morale sessuale civile, e ha sviluppato l’idea soprattutto nel Disagio della civiltà. Se il nevrotico riuscisse a fare a meno dei propri ideali riuscirebbe a fare a meno anche della nevrosi. Il sintomo come puntello dell’ideale Lo scacco dell’ideale viene compensato dalla formazione dei sintomi, il cui tornaconto secondario consiste nell’intrattenere per via di compromesso il godimento inaccettabile; oppure lascia il soggetto in balìa di un senso di colpa inestinguibile, riflesso di un godimento a cui più o meno consapevolmente non riesce a rinunciare. L’analisi tende infatti a contrastare, ridurre, depotenziare l’ideale conducendo al desiderio, risultando così uno dei mestieri impossibili nel cui novero Freud aggiungeva l’educare e il governare. Psicanalizzare significa avversare l’ideale eretto come bastione contro un godimento che occorre rivelare e la cui manifestazione è stata la causa del crollo nevrotico. Vale a dire che il nevrotico viene in analisi con lo scopo di rabberciare l’ideale per liberarsi del sintomo che ne integra le carenza, mentre l’analisi porta alla riduzione dell’ideale, spesso appoggiandosi sul sintomo la cui sparizione troppo rapida spinge il soggetto a ripercorrere la stessa via che l’ha condotto al vicolo cieco della nevrosi, allontanandolo dalla possibilità autentica di ripetere la scelta. Ripetere la scelta Solo la possibilità, offerta dall’analisi, di ripetere la scelta permette di mutare la posizione soggettiva invischiata nella nevrosi. Il motto dell’analisi non può essere, come a volte si dice, «conosci te stesso». Chi meglio dell’ossessivo vorrebbe conoscere se stesso ... per non farne niente? Il moto è piuttosto il pindarico «divieni quel che sei», riattualizzato nel nostro secolo da Nietzsche. Il nevrotico di fatto si oppone con tutte le proprie forze alla traversata del fantasma che porta a divenire quel che si è. Per questo l’analisi, lungi dallo svolgersi in una regolare routine le cui fasi si susseguono ordinatamente, incontra momenti critici dove il soggetto è messo di fronte all’alternativa radicale e dove la cura può rischiare di interrompersi prematuramente. Ogni vantaggio che l’interpretazione acquisisce sul sintomo, riducendone la portata, lascia scoperto il fantasma da cui riemerge la questione angosciante del godimento e del desiderio dell’Altro. Il soggetto così, al di là del beneficio ricevuto, si trova precipitato nell’interrogativo: «Cosa vuole al di là del mio bene?». Il sollievo toglie infatti anche il tornaconto del sintomo, provocando una vacillazione del rapporto con l’Altro, incarnato dall’analista. Nasce così la domanda: «Cosa ci faccio qui?», travestimento del sospetto, intollerabile per il nevrotico, che potrebbe semplicemente essere sfruttato come strumento del godimento dell’Altro1. La menzogna come forma fondamentale della libertà Ogni volta che la dialettica analitica viene portata a fondo emerge una dimensione dell’alterità diversa da quella speculare, incompatibile con l’identificazione. Il capovolgimento dell’ideale dell’io, rivelando il godimento, destabilizza la reciprocità immaginaria dell’io ideale. L’Altro che inganna, il padre lenone che si nasconde dietro il padre padrone, è il preludio della forma radicale d’alterità riscontrabile nell’angoscia, la cui indubitabile certezza è la manifestazione soggettiva di una verità strutturale. Ogni colpo in affondo nell’esperienza psicanalitica fa emergere quella che Lacan chiamava la menzogna fondamentale del linguaggio, dove l’Altro è libero, non prevedibile, e non risponde automaticamente. Può di conseguenza trarre in inganno, ma soprattutto può ingannare dicendo la verità. Figura antitetica al dio cartesiano garante della verità, l’Altro che inganna è perfettamente illustrato nella storiella ebraica riportata da Freud nel Motto di spirito: «Perché mi dici che vai a Lemberg per farmi credere che stai andando a Cracovia mentre è proprio a Lemberg che vai?» Ovvero: cosa vuoi nascondermi dicendo la verità? Che la verità non si possa dire tutta, come sostiene Lacan in Télévision, indica il limite strutturale legato all’interrogativo che sorge in ogni analisi spinta fino al suo punto critico. Solo il fool shakespeariano, il folle, o l’idiota di Dostoevskij, hanno il privilegio di dire tutta la verità. L’Altro inganna, manca di parola perché gli manca la parola per dire la verità indicibile del godimento, perché o è incompleto rispetto al significante, o è inconsistente. L’isterico avrebbe tendenza a fissare l’Altro che inganna nella figura di un padrone smascherato, e piantarlo in asso gettandogli in faccia l’insulto che lo svergogna per riprendere lo spettacolo in un altro teatro. L’analista «squallido» del capitolo precedente, agendo dalla posizione padronale era passibile di un simile smascheramento. Se non è stato deposto e lasciato in tronco non è certo grazie all’arte insegnata da Freud, quanto piuttosto a quella insegnata da Shakespeare nella Bisbetica domata. Non c’è smascheramento della posizione di semblant perché nella finta d’oggetto non c’è dissimulazione, perché l’Altro che inganna rivela dietro di sé non un impostore, ma l’alterità radicale del godimento e dell’angoscia. Il timore della dipendenza è, in effetti, il timore che l’Altro goda a mie spese. Quante volte nei colloqui preliminari non sentiamo esprimere perplessità nel momento della decisione di intraprendere l’esperienza psicanalitica per timore di una dipendenza dall’analista? Questa titubanza lascia intravedere la posizione fondamentalmente parassita del soggetto. Nella situazione primitiva dell’essere, nella chiusura autoerotica in sé, l’apertura all’Altro è traumatica, e il parassitismo è un obiettivo latente perseguito dal soggetto come recupero della propria chiusura. Dietro ogni rivendicazione un po’ troppo esasperata di autonomia e di indipendenza cova un’aspirazione di carattere parassitario. Il parassita In un passo di Radiofonia, Lacan esemplifica questa posizione attraverso l’immagine letteraria in cui la presenta Maupassant. «Ho mostrato a suo tempo che l’ostrica da inghiottire evocata dall’orecchio che Bel-Ami vuole incantare svela il segreto del suo godimento di maquereau-prosseneta, lenone, ruffiano, drudo. Senza la metonimia che di questa conca fa una mucosa non c’è più nessuno per pagare lo scotto che l’isterica esige, ovvero che egli sia la causa del suo desiderio attraverso questo godimento stesso» 2. Nel romanzo di Maupassant il protagonista, Georges Duroy, soprannominato Bel-Ami dalla figlia di una delle sue amanti, è un personaggio di origini modeste, che riesce a salire uno dopo l’altro i gradini della gerarchia sociale grazie a un briciolo di fortuna iniziale e grazie soprattutto alla capacità di piacere alle donne giuste al momento giusto. Una volta abbracciata la professione di giornalista, l’arte di seduttore prima ancora che di scrittore, lo porta progressivamente ai vertici del successo. Il romanzo si conclude nella descrizione del sontuoso matrimonio con la figlia del direttore del suo giornale, giunta all’altare dopo aver ceduto al fascino di Bel-Ami e aver acconsentito al proprio romantico rapimento. Nella scena a cui si riferisce Lacan, Bel-Ami si trova a cena in un ristorante con Forestier, l’amico giornalista che gli ha dato la prima spinta, Madeleine, sua moglie, il cui cuore sarà preda del nostro eroe, e M.me de Marelle, conoscente dei due coniugi e vittima imminente del fascino di Duroy. La piccola combriccola ha sciolto la lingua alla chiacchiera in attesa delle vivande, quando cominciano ad arrivare le prime leccornie. «Furono portate le ostriche d’Ostenda – recita la bella traduzione di Caproni – piccole e grasse, simili a delicati orecchi infantili chiusi fra le valve, che si scioglievano tra il palato e la lingua come chicche salmastre». Bel-Ami vuol arrivare alla cosa preziosa che l’ostrica racchiude in sé, e che nella scena descritta possiamo immaginare incastonata in un orecchino di M.me de Marelle. Dal lobo adorno dell’orecchio della dama, alla mucosa impreziosita dalla brama del cavaliere, Lacan vede la metonimia di cui Bel-Ami testimonia con il fluire rapinoso delle sue parole. A farlo parlare è quel che scorge nella donna come segno del proprio godimento, facendolo al tempo stesso fungere per lei come causa di desiderio. Il godimento dell’Altro incarnato da Bel-Ami opera come causa di desiderio per la deliziosa isterica rappresentata da M.me de Marelle. E poiché la donna da sedurre, l’isterica, vuole sentirsi una piccola cosa preziosa, accondiscende al godimento di maquereau di Bel-Ami. Ciò che in lei è prezioso è nascosto ai suoi occhi e può essere scoperto solo attraverso lo sguardo dell’Altro. Occorre che Bel-Ami veda l’inestimabile godimento che può trarre da lei perché lei stessa senta il proprio valore senza bisogno di conoscerlo. Accondiscendere completamente alla lusinga presenta tuttavia il rischio, che la donna dei biancospini ha imparato a conoscere a proprie spese, di essere messa da parte, di risultare sostituibile. Una volta privata del proprio miele, la donna resta in balìa del versante avido profittatore, prosseneta del godimento dell’Altro. La ricerca dell’assoluto L’abisso della gola insaziabile di tale godimento è perfettamente rappresentato da alcuni personaggi della commedia umana che Balzac assolve raffigurando la soverchiante potenza, la fatalità irreversibile del loro vizio o della loro inclinazione. Possono assumere i tratti lascivi del barone Hulot ne La cugina Betta o quelli perniciosamente virtuosi di Claes ne La ricerca dell’assoluto, entrambi segnati da una bramosia incontrastabile, incurante della rovina che cresce intorno a loro e alle loro famiglie. Si tratta, in un caso come nell’altro, di perseguire un assoluto che rende ciechi di fronte a tutto il resto. Qualunque cosa passa in secondo piano per Hulot quando la grazia femminile ne infiamma la sensualità e nessun prezzo può arrestare Claes nella ricerca ossessa dei mezzi che rendano possibile il suo chimerico miracolo alchemico. Il probo papà Goriot, che in fondo rovina solo se stesso soccombendo all’adorazione per le figlie, può allinearsi in questa galleria di personaggi la cui natura è al di là della giustizia e dell’ingiustizia. Non hanno né torto né ragione, né colpa né innocenza. La loro unica pecca sta nel seguire sfrenatamente la passione da cui sono posseduti. La sola mancanza che li porta alla distruzione è di moderazione. Non c’è giudizio di valore sui fini che perseguono, ma li perseguono fino all’annullamento di se stessi. Il godimento dell’Altro ha in loro l’illustrazione più convincente di cosa significa la sua illimitatezza, il suo imperio incondizionato. Possiamo qui scorgere il significato dell’antinomia tra godimento e desiderio. Solo il desiderio può infatti temperare l’assoluto del godimento trattenendo il soggetto tra le cose transitorie di questa terra. Non è questo anche l’insegnamento del delizioso dialogo tra Freud e un anonimo poeta che va sotto il titolo di Caducità? Desiderio/godimento L’antinomia tra desiderio e godimento ha un risvolto pratico nell’esperienza psicanalitica. Se parliamo di desiderio dell’analista non parliamo infatti di godimento dell’analista. Bel-Ami approfitta del desiderio che causa in M.me de Marelle. La possibilità della psicanalisi deriva dal non approfittare del desiderio causato nell’esperienza. Cosa sarebbe della psicanalisi se un Freud libertino si fosse abbandonato all’avvenente isterica che gli gettava le braccia al collo? Freud racconta l’episodio aggiungendo che l’imbarazzante situazione fu risolta dall’entrata improvvisa della cameriera, grazie alla quale furono risparmiate penose spiegazioni. Nelle analisi moderne non occorrono né cameriere né spiegazioni: la differenza tra la posizione dell’analista e quella del maquereau è chiara di partenza. Ciò non toglie che il godimento dell’analista possa restare supposto e la conduzione dell’analisi possa muoversi tra un godimento che in quanto tale deve restare supposto e un desiderio che invece è effettivo. Non è infatti il godimento del maquereau a rappresentare un rischio per l’analista, quanto piuttosto il godimento masochista che implica la rinuncia al desiderio, la caduta fuori dal desiderio dell’Altro e l’identificazione con l’oggetto. Poiché nella conduzione dell’analisi deve occupare il posto dell’oggetto causa di desiderio il rischio è che si identifichi con tale oggetto. E’ un tipo di errore opposto a quello esaminato nel capitolo precedente: la risposta sarebbe in questo caso non il risentimento e la prova di forza per ristabilire l’onore ferito, ma l’adesione all’insulto in quanto tale. Anche così avremmo un cedimento rispetto al semblant che implica una finta d’oggetto, non una identificazione con esso. 1 J.-A. Miller, Pas de clinique sans éthique, in Atti delle giornate dell’Ecole de la cause freudienne, tenutesi a Parigi nell’ottobre 1983 sul tema: Clinique et ethique dans la psychanalyse. 2 J. Lacan, Radiophonie, in Scilicet, n. 2/3, 1970, p. 71. Il passo è commentato da J.-A. Miller in Clinique de J. Lacan, corso del 1981-’82 (inedito).
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