DOVUNQUE ALTROVE I topoi freudiani e il problema del soggetto nel pensiero psicanalitico Amelia Barbui e Marco Focchi Capitolo sesto IRRAPPRESENTABILITA' DEL PRESENTE L’isterizzazione d’inizio analisi è correlativa all’atto con cui l’analista, assumendo la posizione dell’Altro desiderante e scartando quella dell’Altro che gode, si presenta come oggetto del desiderio dell’analizzante. Dà così nel transfert un appoggio reale su cui far leva per portare in luce la fantasmatica del soggetto. La struttura temporale del fantasma
Preso dal versante fenomenico, il fantasma è l’alibi del soggetto, il suo altrove, ciò che gli consente di assentarsi. È per esempio, lo sguardo assente di chi, perduto nelle proprie fantasticherie, non ascolta mentre gli si parla. In un certo senso il fantasma offre una via d’uscita al qui e ora portando verso un trascorso mitico o un orizzonte di là da venire in cui il desiderio si raffigura come appagato. Passato e futuro formano due linee di fuga che si allontanano dal vuoto dell’ora in direzione di un altrove atopico. La struttura temporale del fantasma tuttavia, al di là dello schermo immaginario, è costituita da una imminenza e da un ritorno che tengono presente lo sfondo di mancanza su cui si staglia l’esistenza del soggetto, ma nel tempo in cui egli non può pensarsi. La formula lacaniana del fantasma, S ◊ a, significa infatti lo svanire del soggetto alla possibilità di rappresentarsi nell’istante in cui c’è come godimento impensabile. La nozione freudiana di fantasia, più ampia di quella lacaniana di fantasma, comprende sia l’aspetto immaginario, la fantasticheria in cui il soggetto si pensa dove non è, sia quello reale dove il soggetto c’è senza potersi rappresentare. Nella dimensione corrente del linguaggio il significante rappresenta un soggetto per un altro significante. Ciò vuol dire che il soggetto può pensarsi nella distanza offertagli dalla rappresentazione. Ma nella dimensione mitopoietica del linguaggio1 il soggetto «c’è», localizzato in un presente al di fuori di ogni possibilità di rappresentazione, in atto e impensabile al tempo stesso. Soggettività e temporalità nel linguaggio Studiando la soggettività nel linguaggio2, Benveniste lega l’atto a una forma di autoriferimento del discorso realizzato dal deittico che, operando la conversione dal linguaggio alla parola, ha come solo referente la realtà stessa del linguaggio, il suo aver luogo. In effetti il soggetto non è qualcosa che esista prima del linguaggio e indipendentemente da esso e che vi entri solo in un momento successivo. Si può cercare di immaginare l’esistenza degli enti naturali prima che il linguaggio li nomini, ma nulla di analogo è pensabile per il soggetto. Esso infatti non coincide con l’animal che, come rationale, abiterebbe il linguaggio. Al contrario, il punto in cui il linguaggio cede la funzione di significare per esibire la propria presenza è anche quello in cui l’esistenza irrappresentabile del soggetto manifesta la propria estraneità – Unheimlichkeit – rispetto al vivente (godimento) in cui prende radici. Il soggetto «c’è» soltanto nella misura in cui il linguaggio irrompe nella parola indicando come referente la propria fonte svanita. Il senso della nozione di divisione del soggetto si coglie nel tempo inafferrabile di sdoppiamento tra ciò che la parola è e ciò che essa dice. Nell’eclissi del soggetto al di là della propria divisione si rivela l’esperienza della temporalità la cui organizzazione è riscontrabile, in ogni lingua, nella distinzione tra i diversi tempi verbali. È notevole che, qualunque tipo di distinzione e di variante possa esservi nella loro organizzazione, la linea di demarcazione passi sempre per il presente. Questo presente – osserva acutamente Benveniste – come riferimento temporale non ha che un dato linguistico: la coincidenza dell’evento descritto con la situazione di discorso che lo descrive. Il punto di riferimento temporale del presente non può essere che interno al discorso. «Crolla!» Uno scrittore come Meneghello, sensibile, attraverso l’esperienza del dialetto, al fondo di realtà inesprimibile della lingua, è perfettamente consapevole della coincidenza tra l’evento e l’aver luogo del linguaggio. Troviamo questo passo in Libera nos a Malo: «Una parola credo di averla introdotta io a Malo, un pomeriggio. Eravamo in molti nel cortile della nonna, c’era un mucchio di sabbia e stavamo facendo certe invenzioni capricciose di castelli e torri, con grande eccitazione e trambusto. A un tratto vidi che la costruzione accennava a incrinarsi e dissi: “Crolla!”». La parola magica sentita da me chissà dove, sconosciuta a tutti gli altri ma immediatamente capita, si sparse come una vampata. Tutti borbottavano “crolla, crolla”, affaccendandosi, mentre la nostra opera si accasciava. La parola nuova era l’evento stesso». Si vede qui il divario incolmabile tra la particolarità della parola-evento e l’universalità del concetto. La parola sconosciuta, ma immediatamente capita, opera magicamente, prescindendo dal concetto di «crollare». Nell’istante in cui rivela e crea l’evento essa vi corrisponde in modo immediato, poiché l’evento non è il fatto a cui possiamo riferirlo se consideriamo la scena da un punto di vista concettuale, non è l’accasciarsi del castello di sabbia. La parola nuova non viene capita attraverso il fatto già concettualizzato, ma immediatamente, al di fuori della rappresentazione, perché essa diviene il mito, l’evento unico e incomparabile in cui per il soggetto si apre la possibilità stessa della successiva comprensione concettuale. Verrà anche il concetto di «crollare», generalizzando l’estensione della parola, e potrà crollare una diga, una casa, la fiducia in un amico. Ma niente potrebbe «crollare» se non ci fosse stato quel «crolla!» del castello di sabbia che incarna la forma autentica del presente. L’antitesi tra presente e rappresentazione Solo considerando il tempo nel suo riferimento linguistico siamo in grado di superare la difficoltà di definire il nunc, sempre diviso tra passato e futuro non appena cerchiamo di puntualizzarlo. Il tentativo di oggettivare il tempo in cui siamo, porta immancabilmente alla scissione tra ciò che siamo stati e ciò che saremo, come sapeva già Agostino. Se con Benveniste diciamo che il presente è il tempo in cui si parla, siamo in grado, in ogni momento, di reperirlo coordinandolo con la soggettività. Ma collegando il presente con l’io ne abbiamo soltanto una rappresentazione convenzionale. Il soggetto che prende parola dicendo «io» si mostra in un presente in cui non è, dove la scaturigine della parola è mascherata dalla rappresentazione stessa in cui egli si presenta. È un po’ come nel Castello dei destini incrociati, di Calvino: gli ospiti, resi muti per incantesimo, raccontano le loro storie allineando le carte di un mazzo di tarocchi, e la prima carta scelta della fila raffigura il personaggio che prende parola. Il cavaliere avventuroso si presenta gettando sul tavolo un fante di spade, il vecchio saggio si mostra in un re di coppe, e così via. Ma all’origine, per ciascuno, vi è il silenzio, la propria inesprimibile esistenza. Secondo Benveniste occorre allargare il campo della soggettività fino a includere la temporalità. L’io e il tu sono infatti forme vuote, simili ai tarocchi di Calvino, con funzione deittica, che rimandano il discorso alla propria realtà, alla propria istanza, che non indicano né un concetto né un individuo, ma la presenza del soggetto nell’atto di prender parola. Nella logica sviluppata nel capitolo precedente, l’assunto di Benveniste – che ha un fondamento cartesiano in quanto il soggetto include la temporalità solo se è dove si pensa – va invertito. I significanti in cui il soggetto si rappresenta come io escludono ciò in cui, come pura sospensione temporale, è. Nel tempo del discorso in atto, infatti, il soggetto prende parola, senza poter dire nulla di ciò che è. È un tempo antitetico a quello narrativo che, seppur non rigorosamente misurabile, è tuttavia sempre riconducibile a una cronologia, a una successione di eventi. Il presente autentico dell’atto di parola è diverso tanto dal presente narrativo quanto dal tempo oggettivo, scenario di eventi, pensato da Newton. Esso si realizza nella coincidenza tra il significante e ciò che viene designato. La soggettività nella funzione di rappresentazione vi si rivela destituita, manifestando la propria ineffabile presenza fuori rappresentazione, nell’incipit a cui l’atto psicanalitico riconduce. Presenza reale dell’analista La presenza dell’analista, locuzione introdotta in modo inelaborato da Nacht, è certamente la sua disponibilità fisica: occorre che l’analista ci sia e non manchi all’appuntamento che scandisce lo svolgersi dell’analisi. Questo livello elementare cela però un risvolto più complesso, non riducibile al suo aspetto empirico. Lo dimostrano i fantasmi, offerti dall’esperienza clinica, relativi alla possibilità che l’analista manchi all’appuntamento, o al timore di una sua sparizione o morte precoce. Il giorno prima di una partenza ogni analista ha senz’altro sentito dar voce alle preoccupazioni, che si esprimono senza ambagi, per la sua salute e la sua sicurezza: se l’aereo su cui viaggia precipitasse? se il treno deragliasse? se l’albergo che gli dà rifugio fosse travolto da una valanga o da un’inondazione? Si tratta certo di un augurio sotto le mentite spoglie della negazione, di un modo non innocente di dire: «Buon viaggio!». Vi si esprime l’altro volto dell’amore di transfert. Ma c’è qualcosa di più essenziale, riguardante la presenza dell’analista in un reale che incarna al di là della sua corporeità fisica, e a cui dà consistenza con la puntualità del ritorno. Il versante immaginario del fantasma, come abbiamo visto, è l’assenza del soggetto da sé che gli consente di rappresentarsi in un passato o in un futuro idealizzati. La mancanza attuale è rivestita e schermata dall’immagine dell’io ideale i(a). Il reale, invece, su cui il fantasma apre è un «c’è» spogliato dell’ideale, proiettato sullo sfondo di una mancanza in cui si concretizza la particolarità irriducibile dell’esistenza nel punto di desoggettivazione. Schematizzando: versante immaginario – «manca» sullo sfondo di un c’era o ci sarà (+ - +); inversione nel reale - «c’è» sullo sfondo di un manca (- + -). Nella prima sequenza riconosciamo «le assenze» del soggetto che si rappresenta in un altrove. Nella seconda constatiamo la presenza incarnata nell’atto irrappresentabile. L’atto psicanalitico, che concretizza la presenza dell’analista al di là della sua disponibilità empirica, concerne la seconda sequenza. Il desiderio emerge così nella sua purezza, senza l’appoggio di un’immagine sostitutiva. Non è rivolto a questo o a quell’oggetto, ma è desiderio di una differenza pura. L’analista c’è, sostiene l’atto sullo sfondo di una mancanza scevra di ogni particolarità, in modo da offrire appoggio al desiderio dell’Altro cui dà corpo. Il posto dell’analista non è quindi segnato da un io ideale, i(a), ma da ciò che Lacan chiama semblant, un simulacro vuoto, una finta d’oggetto attraverso cui l’analizzante consuma i miraggi narcisistici facendovi affiorare la verità del proprio desiderio. Nuova collocazione del referente Il desiderio dell’analista ha dunque la funzione di disancorare dai referenti narrativi il discorso che il paziente espone sotto forma di domanda, per riportarlo alla propria realtà, dove il desiderio si incarna nella differenza pura. Se il soggetto racconta una storia che gli è capitata nella giornata, con personaggi, fatti e vicende, la presenza in atto del desiderio dell’analista funziona come operatore che riporta il contesto narrativo al campo pulsionale, al desiderio. Opera cioè uno spostamento di referente; il campo del transfert infatti, dove si svolge il discorso analitico, è quello in cui tutto ciò che si dice significa qualcos’altro. Tale spostamento è reso possibile dal fatto che l’analista «c’è» nel «non penso» in cui l’atto non è attribuibile a un soggetto, non è né commentabile né rappresentabile nel resoconto clinico dove è possibile esporre solo la costruzione, gli effetti dell’atto, i personaggi chiave. Attraverso questa esposizione, che può avvenire, per esempio, in un controllo o in una supervisione, l’analista mette alla prova l’atto, ma raccontarlo è al di fuori della possibilità strutturale, in quanto esso è propriamente l’inverso del racconto. Ogni volta che l’analista cede alla tentazione di rappresentarsi, l’atto scivola nell’acting-out, offrendo un frammento autobiografico più che del materiale clinico. Il borghese insultato Un esempio tratto dalla recente letteratura psicanalitica può farci cogliere meglio tale slittamento, attraverso la descrizione del passaggio in cui un giorno, senza motivo apparente, in seduta, una giovane donna prese a insultare il proprio analista che, lungi dal trovarsi nella posizione del non penso (l’unica da cui domandarsi «perché?» al di fuori della finzione d’ipotesi) comincia una serie di riflessioni. «Avrei potuto anche sorvolare – scrive – se questi insulti non avessero riguardato ciò che stavo lì a fare». Vale a dire che si era sentito ferito nella posizione di analista, come ci si sente feriti nell’onore. Il senso dell’offesa si riassumeva nel termine «squallido», che investiva della propria luce disadorna il suo lavoro, l’arredamento dello studio e persino i suoi seminari teorici. Sulle prime il nostro personaggio (perché qui l’analista presenta se stesso come il personaggio di una storia) è sfiorato dall’idea che le accuse, mosse nel transfert, si rivolgano al suo successo di «panciuto professionista» rappresentante di un mondo borghese disprezzato dalla paziente. Ma l’idea è fugata dalla considerazione che «in definitiva di me cosa poteva sapere?». Il vero cedimento rispetto all’atto psicanalitico è qui, nel momento in cui l’analista non regge il transfert, non sopporta di faire semblant dell’oggetto esecrabile cui la donna rivolge il suo scatto d’ira, e al posto di questo mette tutto se stesso, domandandosi cosa poteva sapere lei di lui. Viene così travisato l’autentico referente dell’operazione analitica, perché l’analista nel transfert è amato, odiato o ignorato non certo per le proprie virtù o i propri difetti, non certo perché panciuto e borghese piuttosto che povero e bello, ma perché la sua presenza incarna l’oggetto impensabile intorno a cui si agitano i sentimenti del soggetto, il solo che dovrebbe aver posto nella situazione analitica: l’analizzante. Occupare la posizione di psicanalista significa essere presi per quel che non si è e, possibilmente, saperlo. Ma su tutt’altro sapere si regola il narratore: «Sapevo bene che alla sfida isterica bisogna sempre rispondere». Questo sì è un precetto degno del Grande Manuale di tecnica e astuzia psicanalitica! Peccato che l’atto sia esattamente l’inverso del manuale di tecnica. «Il soggetto non si aspetta altro che di dimostrare all’altro la sua impotenza, e quindi è perduto, ai suoi occhi, chi non raccoglie il guanto». L’autore si rende conto però che questa gnomica non può portarlo molto lontano, per cui lo troviamo a domandarsi amleticamente: «Allora, avrei dovuto scusarla?». È un problema in effetti, perché se l’offesa proferita nel transfert è sentita come personale, occorre valutarne l’entità, come negli antichi codici cavallereschi. E qui l’autore, gettata alle ortiche la precettistica rivelatasi inutile, nella pratica si affida al sentimento. «Sentii che qualcosa me lo impediva». E cosa glielo impedisse è presto detto. «Urgeva, certo, “un’interpretazione”, ma non era con quel mio sapere che avrei potuto fabbricarla, fingendo uno sdegno che non avessi sentito». Non c’è dunque solo il brancolare di chi cerca a tentoni una via d’uscita nel ricorso romantico all’autenticità del sentimento. C’è il fatto che le ingiurie sono proprio andate a segno. Touché! Le offese della donna erano taglienti: «Le aveva scelte con tale oculatezza che non uno dei suoi insulti era caduto nel vuoto». È evidente che gli insulti vanno a effetto perché l’analista non gioca il semblant e si vede preso di mira nell’essere. Non appena si vuol pensare l’atto si scivola dalla posizione analitica a quella padronale, che è in effetti esposta al ridicolo dell’insulto quando non si sa difendere il proprio onore: può sempre sorgere una voce innocente a gridare che il re è nudo. La nozione d’ingiuria Facciamo un esempio in forma d’apologo: siamo usciti per una serata incignando una cravatta nuova, scelta con la massima cura. Ne siamo talmente fieri che in fondo abbiamo accettato l’invito al ricevimento soltanto per far ammirare la nostra superba cravatta. Questo pregevole oggetto viene così eletto dalla nostra vanità a insegna di prestanza. Ne siamo assolutamente orgogliosi, anche se ciò è del tutto compatibile con la possibilità che qualcuno degli invitati trovi il nostro vessillo assolutamente di pessimo gusto. La differenza di opinioni in fatto di abbigliamento fa parte della normale convivenza civile, ma siccome siamo convinti di avere una posizione sociale rispettabile e temuta, ci siamo già predisposti a ricevere i complimenti anche dai nostri avversari. Inaspettatamente però qualcuno si alza proclamando che la nostra cravatta è orribile e squallida, chiaro segno di cattivo gusto e di pochezza. A questo punto ci sono due possibilità: 1. ritenendoci offesi nell’onore rompiamo l’attonito silenzio caduto nella sala, per dare all’importuno quel che si merita; 2. considerare che, essendo certe uscite piuttosto inconsuete nella buona società, forse il nostro aggressivo interlocutore ha di mira qualcos’altro dalla nostra cravatta e da noi stessi; si può così stare al gioco per vedere cos’ha in mente effettivamente. Solo nel primo caso l’insulto va a segno poiché consiste nel mettere a nudo ciò in cui il soggetto è irrappresentabile, sia direttamente, nominandolo, sia indirettamente, facendone cadere le insegne. L’ingiuria destituisce il soggetto da ciò che lo rappresenta, separando l’ideale i(a) dal mero essere a. Nominare il nome di dio equivale all’insulto perché il nome ebraico di dio è «io sono». Di dio si ha solo il nome quindi, necessariamente, nominarlo significa nominarne l’essere. Di fronte all’insulto non ci sono molte possibilità di spiegarsi: esso interrompe il dialogo e provoca l’umiliazione o la prova di forza. Nel caso di cui ci stiamo occupando, l’insulto della paziente va a segno perché, non agendo dalla posizione di semblant, l’analista si sente toccato nel proprio essere. Lo «squallido!» gettatogli arditamente in faccia lo fa decadere da quelle che evidentemente considerava le proprie insegne di prestanza: l’abbigliamento, l’arredamento dello studio, i suoi discorsi pubblici, riducendolo a ciò che sente di essere: «un panciuto borghese». Scrive infatti: «Chi dice che, nonostante il transfert, e per quanto possa essere all’oscuro sulla “personalità” del suo analista, un analizzante non sappia, forse senza sapere di saperlo, con chi ha a che fare veramente?». Sente così che avrebbe commesso un errore imperdonabile se «con la scusa del transfert» avesse pensato che queste accuse non fossero rivolte veramente a lui. È evidente, d’altra parte, che chi sente il transfert come una scusa possa avere qualche difficoltà a maneggiarlo nei passaggi difficili del procedimento analitico e si trovi «con le spalle al muro della più pura evidenza». Si tratta di una vera e propria inversione della situazione analitica, tale per cui l’analista è minacciato nella totalità del proprio essere dal: «Che vuoi?» proveniente dalla giovane donna. «Mi sentii raggelare. Ciò che avvertii in quel momento ha un solo nome: vergogna». Il pudore, così seducente nell’ostentazione femminile della mascherata, può avere risvolti di incontrollabile comicità in chi, incapace di seduzione, accampa pretese di autorità: tocca infatti la prestanza fallica. Chi più dell’aristocratico è esposto al rischio del ridicolo? Tolstoj ne fa sentire il brivido al principe Andréj quando, provenendo dalle retrovie, nella sua linda divisa, subisce l’affronto di un soldato, reduce dalle linee ove si sta consumando la sanguinosa battaglia. Il soldato osa trasgredire un ordine e il principe si trova di fronte all’aut-aut: o la derisione, o la dignità fatta rispettare a colpi di frustino in viso. Come il principe, passa alle vie di fatto anche il borghese per risollevare dallo squallore il proprio prestigio. «La cacciai fuori in malo modo. Lei reagì cercando di colpirmi: il dramma era al suo culmine. Posso garantire che ero veramente furibondo. La spinsi energicamente verso l’uscita. Allora lei si rannicchiò in un angolo e mi guardò atterrita. Mi pregò di non cacciarla, perché “non aveva nessun altro”. Allora mi calmai, esigendo, comunque, le sue scuse». Può non sembrare una grande impresa cavalleresca aver ragione di una donna con la forza, ma dobbiamo considerare che l’analista qui aveva l’impressione di subire una vera e propria ordalia. «Era chiaro che questa donna mi aveva messo alla prova, e anche che l’avevo superata. Ma se non mi fossi vergognato prima, e poi adirato davvero, se ne sarebbe accorta». Al di là della goffaggine di questo delirio di osservazione, il problema è il completo sfasamento d’asse dell’analisi. L’atto psicanalitico consiste nel riportare il soggetto alla scelta forzata, nel metterlo alla prova della propria perdita d’essere. Qui invece è l’analista che, messo alla prova, sente di aver qualcosa da salvare. I momenti critici dell’analisi portano il soggetto a confronto con la propria responsabilità, con l’impossibilità della deroga, con la demolizione dell’immagine narcisistica, qui è l’analista che sente di dover salvare la propria immagine e confrontarsi con la propria verità. «Era la mia verità che lei voleva mettere alla prova, e la mia verità passava per la mia vergogna». Quando l’analista si sente come un bambino scoperto a rubare la marmellata non sembrano esserci molte possibilità per la verità dell’analizzante, che sarebbe poi l’unica che importa nell’analisi. Come trasformare un caso in spunto autobiografico Il resoconto di questo caso, nei suoi risvolti patetici fino al sublime e drammaticamente ridicolo, mostra il mordente della critica operata da Lacan alla nozione di intersoggettività, perché illustra come la capitolazione rispetto all’atto, dove l’analista dovrebbe agire non come soggetto ma in posizione di semblant, rimetta in gioco la soggettività con tutte le sue esigenze di prestanza e di rappresentazione narcisistica, i(a). Ma è un frammento prezioso anche perché mostra gli effetti del cedimento sul transfert, cioè sulla nuova collocazione strutturale del referente nel discorso del soggetto. Nel momento in cui l’analista convalida il referente narrativo del discorso del soggetto, accettando che l’insulto sia rivolto a lui personalmente, si mette fuori dal campo del transfert. La presenza dell’analista si degrada allora a un esser lì nella pienezza del proprio essere, al punto da sentirsi colpito dagli insulti nei propri tratti identificativi che, al di là dell’io ideale, sono fissati nell’ideale dell’io. Importanza di un significante senza referente Se non c’è messa in gioco del semblant, di un significante senza referente che possa significare tutto ciò che l’analizzante imputa all’analista, si insinua, al suo posto, l’ideale. All’atto si sovrappone il registro immaginario che lo fa scivolare nell’acting-out. Prende vita così una sequenza narrativa che può concretizzarsi in una scenetta simile a quella sopra descritta. Più che di fronte al frammento di un caso clinico si ha l’impressione che si tratti di una sorta di confessione, con lo spunto narcisistico di autogiustificazione immancabile in questo genere letterario. Eccone infatti la conclusione. «Paradossalmente era stato proprio il mio “orrore per l’atto analitico” a consentirmi di compierlo». Il problema se sia meglio che le cose riescano a caso o studiatamente passa così, per bontà divina, in seconda linea. L’intenzione era buona: assolto. L’analista proietta in questo caso la propria immagine nel racconto, dice tutto quel che gli è venuto in mente, quel che ha fatto e quel che ha omesso, espone le contraddizioni in cui si è imbrogliato, narra insomma la sua esperienza, ed è per questo che, invece di un frammento clinico, presenta un saggio di letteratura introspettiva. Ma nulla meglio di questo esempio negativo illustra cosa significa che l’analista debba attenersi al non penso, nell’impossibilità di rappresentare l’atto. 1 Per la distinzione tra la dimensione logico-riflessiva del linguaggio e quella fantastico-mitopoietica, cfr. M. Focchi, L’oggetto immemore, F. Angeli, Milano 1988. 2 E. Benveniste, La soggettività nel linguaggio, in Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971.
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