DOVUNQUE ALTROVE I topoi freudiani e il problema del soggetto nel pensiero psicanalitico Amelia Barbui e Marco Focchi Capitolo secondo INDICAZIONE DELL‘ES Il problema delle due topiche costituisce un vero e proprio punto cruciale per la psicanalisi. Freud le ha formulate a distanza di oltre vent‘anni l‘una dall‘altra per rispondere in momenti successivi a interrogativi collegati ma diversi. La prima - inconscio, preconscio, coscienza - presente fin dagli inizi della riflessione freudiana, nasce insieme all‘Interpretazione dei sogni e alla teoria sessuale dell‘isteria per render conto del dato singolare di un desiderio che non coincide con la volontà del soggetto. La seconda - Es, io, superio - si sviluppa, alla svolta degli anni Venti, nel tentativo di spiegare le resistenze che rendono il soggetto impermeabile alle interpretazioni. La prima topica dunque è volta a illustrare la possibilità dell‘interpretazione psicanalitica, la seconda riguarda invece i suoi limiti, mettendo in risalto la differenza tra l‘interpretazione psicanalitica e qualsiasi forma di ermeneutica. Ciò indica già l‘intima connessione dei problemi affrontati alla svolta del secolo e all‘inizio degli anni Venti. Dove i cammini divergono
Nella storia della psicanalisi la seconda topica segna un bivio dove si determinano differenti letture di Freud e in cui le scuole si dividono. La tradizione postfreudiana, che ha i propri riferimenti principali nella psicologia dell‘io di Hartmann, Lowenstein, Kris e nella linea di pensiero inaugurata dal libro di Anna Freud L‘io e i meccanismi di difesa, ha privilegiato la seconda topica vedendo nella prima solo un abbozzo di risposta ai quesiti della pratica terapeutica cui Freud avrebbe imposto una nuova direzione a partire da Al di là del principio di piacere e Psicologia delle masse e analisi dell‘io. La seconda topica sarebbe dunque uno strumento teorico perfezionato che consentirebbe di abbandonare la precedente come rudimentale. La scuola lacaniana invece, almeno nei primi anni dell‘insegnamento di Lacan, quelli del ritorno a Freud, privilegia la prima topica mettendo l‘accento sulla nozione di inconscio, che ormai veniva semplicemente assimilato all‘Es, e valorizzando i testi linguistici di Freud: L‘interpretazione dei sogni, La psicopatologia della vita quotidiana, Il motto di spirito. A questo dibattito rimane in parte estranea la scuola kleiniana che incentra su altre chiavi concettuali il proprio dispositivo teorico. Gli accenti interpretativi delle diverse correnti, presenti nel pensiero psicanalitico quanto alla lettura del testo freudiano, sono la cartina tornasole, sulla lunghezza storica, di una duplicità, un‘aporia, una sorta di opposizione inconciliabile tra due aspetti egualmente presenti, e al tempo stesso irrinunciabili, nel pensiero di Freud. Non è possibile operare una scelta che ne sacrifichi uno salvando l‘altro per una più compiuta coerenza, né realizzare una sintesi eclettica Come le parole toccano le cose? Gli studiosi di epistemologia freudiana hanno individuato da subito questa aporia: Dalbiez parlava di opposizione tra metodo e dottrina, per Ricoeur i due corni della contraddizione sono individuati nel versante ermeneutico, da una parte, e in quello energetico, dall‘altra. Nulla più dell‘energetica è contrario all‘ermeneutica - che è una pura interpretazione di senso - e nulla più dell‘ermeneutica si oppone all‘energetica - che si riduce alla cifra di una costanza a cui non è attribuibile nessun senso. Ricoeur non vuole indicare la contraddizione tra senso e non senso, dove non vi sarebbe nulla di inconciliabile, ma ha di mira l‘antitesi tra senso e reale, ovvero: come può la psicanalisi, attraverso una operazione sul senso, qual è l‘interpretazione, intervenire su un reale il cui limite è designato dal campo delle pulsioni? In breve, all‘interno dell‘aporia rappresentata, nell‘arco della riflessione freudiana, dalle due topiche ritroviamo un interrogativo che traversa il pensiero logico contemporaneo, da Frege a Russell a Putnam a Kripke a Dummett: come le parole toccano le cose? Ma, nel caso della psicanalisi, non si tratta semplicemente di chiarire la possibilità della denominazione, di risalire al mistero dell‘atto di battesimo, per sciogliere l‘enigma di un legame segreto e improbabile tra parola e cosa, poiché l‘interpretazione trasforma, senza altra mediazione, la Cosa in questione, l‘economia libidica del soggetto. L‘interpretazione psicanalitica, diversamente dall‘ermeneutica, non è soltanto rivelazione di un senso nascosto, ma atto che incide direttamente sul reale. Non si tratta di conciliare, come propone Ricoeur, due piani eterogenei, perché occorre piuttosto capire la novità implicita nell‘operazione d‘interpretazione psicanalitica dove i due piani non risultano inconciliabili. Il problema posto dalla differenza tra linguaggio e reale, che traversa la storia della metafisica sotto forma di opposizione tra logica ed etica, tra teoria e prassi, tra progetto e azione, tra interpretazione e realizzazione, trova nella psicanalisi un‘impostazione specifica. Nell‘interpretazione psicanalitica sono presenti infatti, al tempo stesso, tanto la decifrazione quanto l‘atto, e l‘articolazione tra le due topiche freudiane, la connessione e la disgiunzione tra l‘inconscio e l‘Es, sono correlative alla polarità tra decifrazione e atto. Nel frutto più maturo del pensiero occidentale, la scienza galileiana, la diade teoria/prassi implica una discrepanza che viene superata attraverso l‘applicazione: la teoria viene applicata alla prassi. Nella psicanalisi questa diade porta a un risultato diverso. Dalla scienza alla psicanalisi Nella scienza abbiamo un corpo di ipotesi coerentemente formulate che vanno messe alla prova dei fatti. La modalità di cui essa dispone per verificare la teoria collegandola con la prassi è l‘esperimento. Se alla prova dei fatti la teoria non contrasta con i risultati dell‘esperimento è verificata e può trovare una via di applicazione. Ma come è possibile applicare la teoria alla realtà, come è possibile colmare il salto che le separa? Tale problema aveva occupato anche Kant il quale si domandava come la matematica fosse applicabile ai fenomeni della natura e la soluzione ha un carattere circolare: le condizioni della matematica sono al tempo stesso le condizioni sotto cui ci appaiono fenomenicamente gli oggetti a cui la matematica è applicata. Nella psicanalisi l‘applicazione non ha posto. A torto si parla di psicanalisi applicata alla mitologia, alla teoria letteraria, all‘estetica, alla sociologia, alla politica e ad altro ancora. Essa non manca di intersezioni e scambi con queste o con altre discipline, ma la nozione di applicazione, nel senso kantiano del termine, è impropria nel campo psicanalitico. Non possiamo applicare la teoria psicanalitica alla letteratura, all‘estetica, alla sociologia nello stesso modo in cui non possiamo applicarla alla clinica, salvo farne un codice, un corpo astratto, una sorta di metalinguaggio. Soltanto nella misura in cui trasformiamo l‘Edipo in macchina ermeneutica e gli affetti in codici approntiamo una dottrina esplicativa esportabile nei diversi campi disciplinari, ivi compresa la psicoterapia. Ma in tal modo non disponiamo più della psicanalisi in cui il salto, non tanto tra teoria e prassi, quanto tra dimensione logica e dimensione etica, tra decifrazione e atto, trova un punto di articolazione nel transfert. Il problema della differenza tra linguaggio e reale viene infatti risolto in modo diverso nel campo della scienza e in quello della psicanalisi: nella prima attraverso la via dell‘applicazione, nella seconda con il transfert. La divaricazione tra l‘inconscio e l‘Es, le due dimensioni dell‘esperienza psicanalitica, si articola nel transfert, e viene messa in luce dal passaggio tra la prima e la seconda topica. Dall‘ideale al desiderio La formulazione della seconda topica, mettendo l‘indice sulle difficoltà poste dalla resistenza nella conduzione della cura, ha fatto sì che una parte dell‘intervento analitico si specificasse come analisi delle resistenze. Sorge così un altro problema, più specificamente di carattere tecnico, al quale le scuole danno risposte diverse. Si può mettere in dubbio che le resistenze, derivanti dalla parte inconscia dell‘io in cui riconosciamo l‘Es, siano interpretabili nello stesso modo in cui lo è l‘inconscio propriamente detto, ovvero il rimosso. Non si tratta infatti, in questo caso, di riconoscere attraverso i suoi camuffamenti, un desiderio ancora attivo il cui senso non è a disposizione. L‘inerzia derivante dall‘Es concerne piuttosto il tempo della rielaborazione, la necessità di prendere atto di una mutata situazione quanto al soddisfacimento pulsionale, e la difficoltà ad abbandonare una posizione libidica da cui il soggetto traeva godimento, fosse anche godimento del sintomo. Il problema non è dunque quello logico di decifrare un senso nascosto, ma quello etico di decidere di abbandonare una posizione libidica ormai insostenibile. Troviamo qui le ragioni per cui l‘interpretazione psicanalitica non può essere solo intervento chiarificatore del senso, ma un suo polo deve essere rivolto all‘atto. Nella tradizione filosofica, da Aristotele fino a Kant escluso, l‘etica ha la funzione di indicare come l‘uomo debba regolarsi nella propria azione per ottenere la felicità, e suggerisce quel che deve fare per ottenere il bene supremo. Ma è proprio il bene supremo, o, in termini psicanalitici, il godimento, il problema del nevrotico e la fonte della sua sofferenza. La nevrosi in un certo senso è un errore nella scelta etica: di fronte all‘alternativa tra il godimento e la verità della castrazione il soggetto innalza a valore assoluto un godimento che non può mantenere e di cui sostiene tuttavia la domanda. Ragione per cui, obiettivo dell‘analisi è ricondurre il soggetto dalla domanda al desiderio. La spinta maggiore, nella conduzione della cura, è data dal desiderio dell‘analista, forma desoggettivata di desiderio che non si appoggia a un oggetto fantasmatico, ma presentifica la mancanza nella sua purezza. L‘etica della psicanalisi non è la somma di prescrizioni di ciò che l‘analista deve fare. In questo senso è esattamente l‘inverso del manuale di tecnica psicanalitica. Domandarsi «che fare?» è già trovarsi in un vicolo cieco, è sviare il problema perché non c‘è, in effetti, qualcosa che lo psicanalista debba fare. L‘atto psicanalitico a cui è chiamato è essenzialmente diverso da un fare. A differenza dall‘etica dell‘ideale che sottopone l‘azione a un principio guida, quella psicanalitica impernia l‘atto sulla nuda realtà del desiderio, sulla mancanza stessa che l‘ideale ha la funzione di rivestire. Al posto che tradizionalmente spetta all‘ideale, nella psicanalisi troviamo quindi una parvenza d‘oggetto (semblant d‘objet). Tanto sono separati l‘ideale e il fare nell‘etica filosofica quanto sono coincidenti il dire e l‘atto in quella psicanalitica: la parvenza d‘oggetto segna la realtà dell‘atto. I modelli teorici nella scienza sono finzioni separate dalla verità perché trovano verifica nei fatti. Ciò si riflette nella reciproca estraneità in cui rimangono il discorso scientifico e la problematica etica, poiché se finzione e verità restano disgiunte non c‘è posto per l‘atto. Lo scienziato, dal punto di vista personale, può essere naturalmente traversato da scrupoli morali per le conseguenze della propria ricerca, e può anche decidere di sospenderla. Oppenheimer, come dicevamo, non è rimasto indifferente agli effetti dell‘esplosione atomica, e i moderni biologi possono anche essere inquieti all‘idea dei pericolosi ibridi di cui si è resa capace l‘ingegneria genetica. Ciò non toglie che la responsabilità morale di cui si sente investito il singolo ricercatore o la comunità scientifica nel suo insieme, per quanto benvenuta, non fa parte delle qualità professionali necessarie per svolgere il lavoro di ricerca e diventa dunque un problema di sensibilità individuale o sociale. Gli scienziati potrebbero benissimo limitarsi a produrre tecnicamente strumenti di cui lasciare ad altri, ai politici, la responsabilità di impiegarli oppure no. Il transfert come condizione della coincidenza di logica ed etica Nella psicanalisi le cose non stanno così: l‘atto sostiene dal primo all‘ultimo istante la logica della cura, e senza questa coincidenza di logica ed etica non si prospetta neppure una clinica psicanalitica la cui possibilità è determinata dal transfert. Alcuni anni fa abbiamo cercato di spiegare il transfert in termini di traduzione (1), nozione che deve essere distinta da quella di interpretazione. Ogni traduzione, intesa nel senso più ampio, richiede una interpretazione, in quanto ogni testo presenta un certo numero di passaggi per i quali, prestandosi all‘equivoco, occorre decidere un senso. Non vale naturalmente il contrario perché l‘interpretazione può risultare una chiarificazione del senso senza che sia necessario uscire da un contesto linguistico circoscritto. La traduzione Gli studiosi di teoria della traduzione hanno messo in evidenza l‘impossibilità di tradurre senza uscire dal livello linguistico in cui si sta operando, senza riferirsi a un contesto più ampio e in ultima istanza a un contesto fattuale. L‘operazione di traduzione, avvenga sul piano interlinguistico o intralinguistico, consiste in un particolare tipo di sostituzione tra due lingue o tra due campi semantici dove non siamo in grado di stabilire a priori alcun concetto di equivalenza. È impossibile fare una traduzione senza un rimando alle cose, senza chiamare in causa il referente. Questa è in fondo la ragione stessa per cui è e resterà irrealizzabile la traduzione computerizzata, almeno pertanto riguarda la traduzione letteraria. Le macchine, cose loro stesse, non sanno nulla delle cose che le circondano e, in mancanza di un algoritmo capace di definire sul piano puramente logico le sostituzioni necessarie, non sanno come prendere le metafore, le allusioni, le lepidezze. Negli studi sulla traduzione il referente a cui si rimanda per fissare il senso è di carattere empirico: un fatto, un oggetto, una circostanza. Non è difficile stabilirlo quando si resta sul piano della comunicazione pragmatica: testi scientifici o descrittivi. La cosa si complica se ci troviamo di fronte alla prosa letteraria o alla scrittura poetica, che in genere vengono liquidate con il dogma della intraducibilità, mentre proprio qui si prova la vera arte della traduzione in quanto il referente non è a portata di mano: di cosa parla la poesia, di cosa tratta la finzione letteraria? Dove viene meno il solido ancoraggio al referente empirico, siamo investiti da qualcosa di molto più fuggevole, l‘oggetto di desiderio, che è tale perché non è a disposizione. Proprio su questo oggetto mancante e insostituibile si sostiene il transfert. Un referente non a disposizione Nell‘analisi la situazione di transfert si stabilisce perché la presenza dell‘analista fissa l‘oggetto lì dove manca, attraverso la parvenza, determinando un referente intorno a cui può ruotare il lavoro di traduzione dell‘analizzante. Il transfert è precisamente il punto in cui la traduzione è impossibile e tuttavia intorno a cui essa si impernia. Non traduciamo infatti l‘oggetto, ma con l‘oggetto. È la sua presenza a rendere possibile una operazione di sostituzione al di fuori di ogni concetto di equivalenza. Il campo del transfert è quello in cui tutto ciò che si dice significa qualcos‘altro. Ciò che il soggetto dice nel corso dell‘analisi non viene preso secondo l‘intenzione consapevole, ma correlato a un altro referente presente nel campo semantico latente definito dalla pulsione. Il transfert consente lo scambio, l‘operazione di sostituzione da un campo semantico all‘altro, fissando un referente che costituisce l‘elemento reale, non puramente linguistico, nell‘esperienza psicanalitica. La «cura della parola», come l‘aveva battezzata Anna O., è così possibile in quanto la dimensione linguistica si impernia su un elemento eterogeneo e tuttavia incluso, dove il linguaggio, nominandosi, c‘è senza più poter dire di esserci. I punti in cui ciò accade, vere e proprie sezioni dedekindiane del linguaggio, danno una idea di quel che può essere la lingua indiscreta, sulla cui esistenza si possono sollevare gli stessi problemi che per i numeri reali. La lingua, nella sua dimensione reale, non significa niente, pur restando condizione del senso. L‘inconscio come reale Troppo a lungo si è posto l‘accento sull‘assioma inaugurale dell‘insegnamento di Lacan: l‘inconscio è strutturato come un linguaggio, trascurando un aspetto, emerso più tardi, in cui l‘inconscio viene definito come il reale in quanto è impossibile dirlo. Non c‘è contraddizione tra queste due definizioni, ma una precisazione che mette in luce il reale del linguaggio, qualcosa di cui, in mancanza di metalinguaggio, non si può parlare. L‘Es come deittico La distinzione tra inconscio ed Es consente di seguire il filo di questa particolare articolazione della lingua con un referente non dato. Nella terminologia psicanalitica francese Es viene reso con il pronome dimostrativo neutro ça, dopo una scelta fortemente contrastata che fu al centro di violente discussioni tra Pichon e Hesnard. Il nostro Weiss scartò l‘idea stessa di tradurre il termine in mancanza di corrispondenti adeguati nella lingua italiana. Es strebt in mir, suggerisce, verrebbe espresso in italiano «mi vien fatto di tendere» dove è sottinteso un egli (esso) che non corrisponde in nessun modo all‘Es tedesco. Il pronome neutro impersonale della terza persona singolare ha fatto discutere i filologi tedeschi pochi decenni prima che Freud ne facesse un concetto della seconda topica. Ne sono emerse due posizioni: una secondo cui alla proposizione non può mancare un soggetto logico e l‘es deve necessariamente rappresentarlo anche se non in modo manifesto; l‘altra secondo cui gli enunciati impersonali sono proposizioni puramente predicative, senza soggetto, tali per cui es è una forma vuota. Ne consegue che il referente di es è o oscuro ed enigmatico, o semplicemente assente. Al di là del dibattito filologico, nel cui merito sono intervenuti anche filosofi come Brentano e Nietzsche, es rimane comunque irriducibile alla funzione di designazione propria del dimostrativo ça. Il dimostrativo è infatti indissociabile dal gesto dell‘indicare e, anche accompagnandosi a esso, incontra difficoltà a determinare il proprio referente: il dito puntato sul libro non consente di sciogliere il dubbio se con il nostro gesto vogliamo indicare il libro nella sua totalità, la copertina, il colore o altro ancora. La dimostrazione sensibile non è sufficiente né a determinare l‘oggetto empirico né, e a maggior ragione, un oggetto con un diverso statuto di presenza quale l‘oggetto di desiderio. La linguistica moderna classifica i pronomi includendoli tra i commutatori o shifters, il cui carattere essenziale è di rimandare all‘istanza del discorso. Possiamo definire così il deittico, come la funzione non di riportare a una realtà fattuale extralinguistica, ma alla realtà del discorso. Possiamo in questo senso descrivere l‘Es attraverso il deittico, proprio in quanto è contemporaneo all‘istanza del discorso (2). Esso non esaurisce il proprio compito nell‘ostentare qualcosa, perché l‘essenziale consiste nella relazione tra l‘indicatore - Es - e l‘aver luogo del discorso. I deittici costituiscono l‘irruzione del discorso all‘interno della lingua, ponendo, in tal modo, l‘equivoco logico dell‘autoriferimento in cui si fa luce la posizione soggettiva. Gli shifters, come li chiama Jakobson, sono infatti particelle che hanno senso solo in relazione alla posizione soggettiva di chi parla. Posso indicare il luogo dove mi trovo come qui solo perché vi sono. Il mio interlocutore è laggiù perché io non sono accanto a lui, e se vi fossi anche lui sarebbe in un qui. «Qui», «là», «ora», «allora» segnano le coordinate spaziali e temporali di chi parla e, insieme ai pronomi, non servono a operare il passaggio dal linguistico all‘extralinguistico, ma in termini saussuriani, dalla lingua alla parola, ovvero dal linguaggio al suo punto di enunciazione. Paradossi dell‘autoriferimento e rimozione L‘autoriferimento ha creato delle difficoltà alla logica nel nostro secolo di cui i paradossi, rivelatisi nella crisi dei fondamenti della matematica, sono un esempio. L‘insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso oppure no? Russell ha dato anche una veste più immaginosa al piccolo quesito che ha scosso le basi del programma di Frege: un barbiere fa la barba a tutti gli uomini di un villaggio che non si fanno la barba da sé e solo a loro; il barbiere si fa la barba oppure no? In un caso come nell‘altro si cade in contraddizione, perché se il barbiere si rade, allora fa la barba a qualcuno che se la fa da sé, contraddicendo il presupposto secondo cui fa la barba solo a chi non se la fa da sé; se non si rade contraddice il presupposto di far la barba a tutti gli uomini che non se la fanno da sé. È facile, come suggerisce Quine, dire che un simile personaggio non esiste e che non esistono neppure villaggi dove un barbiere debba comportarsi in modo così stravagante. Non erano però così evidenti le conseguenze che avrebbe portato nella matematica l‘individuazione di insiemi che non esistono, costringendo a formulare assiomi che ne escludano la possibilità. Nello stesso modo: cosa significa che il linguaggio, attraverso il deittico, indica la propria istanza, se non una esclusione? Non esiste in senso proprio autoriferimento che non si risolva nell‘esclusione da cui deriva la posizione soggettiva. Verdrängung, rimozione, è il nome dato da Freud a questa forma di esclusione, e nel rimosso riconosciamo l‘inconscio in senso proprio. Ma c‘è un tempo, una scansione, una battuta in cui, non tanto il significante significa se stesso, ma il significante è ciò che significa nell‘atto in cui si divide da se stesso. In questo tempo, in questo atto che non possiamo identificare con il rimosso, scorgiamo una manifestazione dell‘Es come deittico, come un modo di indicare che mostra la realtà della lingua. Cogliamo così la stretta congruenza tra le due definizioni lacaniane dell‘inconscio: strutturato come un linguaggio, e reale in quanto è impossibile dirlo. L‘inconscio è sì linguaggio, ma non linguaggio che significa: è l‘istanza del linguaggio, il suo ineffabile aver luogo il cui evento è reso possibile dalla funzione deittica dell‘Es. Disparità nella lotta di Eros e Thanatos Tutto ciò apparentemente sembra lontano dalla concezione freudiana della seconda topica. L‘Es, riserva pulsionale, è anche il limite di una realtà biologica che, in quanto tale, resta estranea al linguaggio: il significante segna la morte della cosa, e l‘uomo accede all‘esperienza antropogenetica della morte proprio attraverso il linguaggio. C‘è una antitesi netta tra il vivente e il linguaggio. Il silenzio delle pulsioni da cui è abitato l‘Es è il volto della pulsione di morte. Ma Thanatos ha il suo antagonista in Eros che, figlio di Espediente e nipote di Astuzia, inventa scappatoie sottraendo l‘uomo per un tempo determinato alla forbice di Atropo. Thanatos è soverchiante nella forza, il suo colpo è ineluttabile, lui resta il padrone assoluto. Ma Eros, signore delle vie traverse, ha l‘arte dell‘intrigo e del temporeggiare. In altri termini: la sessualità si rivela all‘uomo quando il godimento è perduto, nella misura in cui il corpo di carne si trasforma in corpo significante. L‘impoverimento vitale rispetto all‘animale è conseguenza del fatto che l‘uomo non ha più dimora nella natura perché abita il linguaggio, non ha più tana perché ha casa. Godimento: dove il linguaggio è ineffabile C‘è un recupero di godimento che il soggetto può realizzare attraverso il linguaggio. Ciò che prima (in un «prima» che evidentemente ha solo valore mitico) era consustanziale alla sua realtà biologica e apparteneva immediatamente alla sua carne e al suo sangue, può essere ritrovato solo attraverso la mediazione del significante. La vita è ormai il fatto che la morte è stata sospesa e il godimento localizzato: è un tempo di eclissi del significante. Tuttavia il linguaggio, una volta acquisito, non si cancellerà. Come tempo di eclissi del significante dobbiamo infatti intendere l‘operazione realizzata attraverso il deittico in cui il linguaggio si abolisce nella funzione di significare per esibire la propria istanza. L‘aver luogo del linguaggio ricolloca così il soggetto nel luogo del godimento da cui è esiliato, senza che il distacco da esso sia annullato. Si coglie così il referente evidenziato dalla proprietà deittica dell‘Es: il godimento come tempo in cui è sospesa la funzione del significante di cancellare la cosa; la vita nell‘istante in cui, dimentica della morte, non sa nulla di sé. L‘Es rimanda a tutto ciò che è non-io, alla esistenza opaca a se stessa che il godimento sostanzializza a ridosso dell‘esistenza ineffabile del linguaggio, cioè l‘inconscio. Groddeck: l‘incontrastato dominio dell‘Es Chiarendo in questi termini la problematica freudiana presente nella seconda topica, risulta ancora più netta la differenza non soltanto da Groddeck, da cui Freud aveva mutuato il termine di Es, ma da qualsiasi impostazione psicosomatica basata sul parallelismo tra psichico e somatico, sulla considerazione dell‘uomo nella sua totalità, sulla integrazione di mente e corpo. Non è possibile infatti risalire al di qua della separazione, operata dal linguaggio, tra godimento e corpo, a cui Freud ha dato il nome di castrazione. La concezione groddeckiana della psicosomatica, nella sua semplicità, ha un certo fascino. L‘Es è una sorta di padrone assoluto, dove l‘amore è più forte della morte. Se il nostro occhio non vuol vedere qualcosa o meglio, se l‘Es non vuole che il nostro occhio veda qualcosa, esso diventerà miope. Nello stesso modo tutti gli organi di senso vengono guidati dalla «previdenza dell‘Es». Non limitato da altre istanze, come nella concezione freudiana, l‘Es per Groddeck è una specie di divinità che regge in noi anima e corpo: la vita fisica e quella psichica ne sono semplici forme esteriori. L‘uomo viene vissuto dall‘Es che agisce incessantemente sulla vita organica e sulla personalità, tanto che non dovremmo dire «io penso», «io vivo» ma Es denkt, Es lebt: «l‘Es è il grande mistero del mondo». Freud ha gioco facile rimproverando a Groddeck di buttarsi in un misticismo dove si annulla la differenza tra fisico e psichico. «Le sue esperienze - gli scrive - non portano forse soltanto a riconoscere che il fattore psichico ha un‘importanza superiore a quanto si immaginasse anche nell‘origine delle malattie organiche? Ma esso è solo a provocare tali malattie, intaccando così, in qualche modo, la differenza tra fisico e psichico? Mi sembra non meno temerario dare un‘anima a tutta la natura che ridurre tutto all‘inanimato». Alexander: l‘unità sintetica mente/corpo Lo stesso rifiuto della dicotomia mente/corpo si trova nella concezione, senz‘altro più complessa, smaliziata e moderna, proposta da Alexander. La psicosomatica, nel suo programma, non deve limitarsi allo studio dei processi fisiologici e degli impulsi nervosi che li controllano, ma deve includere l‘analisi della funzione nella sua totalità, comprendendo gli stimoli corticali centrali che possono essere studiati anche solo con metodo psicologico. In altre parole, la psicosomatica deve racchiudere l‘aspetto teleologico che viene escluso dall‘organicismo. La mente è espressione di una reazione totale e la personalità è intesa come una unità sintetica. Resta chiara la differenza tra il sintomo di conversione e il disturbo somatico psicogeno: il primo ha un significato simbolico ed essendo costituito come una metafora è interpretabile; il secondo riguarda gli organi, come il fegato, lo stomaco o il rene che non possono esprimere idee simbolicamente essendo sotto il controllo del sistema nervoso autonomo, considerato da Alexander separato dai processi ideativi. Tali organi vengono però influenzati da tensioni emotive che, se eccessive o prolungate, danno luogo alle nevrosi organiche. Esse, diversamente dal sintomo di conversione, non sono il tentativo di esprimere una emozione, ma la risposta fisiologica di questi organi al costante o periodico ritorno di stati emotivi. Per esempio, l‘aumento della pressione, sotto l‘influsso della collera, non la allevia ma ne è una componente. La medicina psicosomatica inverte così l‘ordine etiologico dell‘impostazione organicista: il disturbo funzionale non è provocato dalla lesione organica, ma la lesione organica è generata dalla persistenza di un disturbo funzionale. La concezione di Alexander non presta certo il fianco a critiche di misticismo come quella di Groddeck. Il suo limite, cancellando la divisione tra mente e corpo a favore di una totalità sintetica, consiste nella impossibilità di individuare il reale che, senza confondersi con la realtà biologica, si distingue a partire dall‘istanza del linguaggio. Il reale infatti non è riducibile alla varietà di emozioni a cui Alexander attribuisce specifiche risposte somatiche, ma è il godimento perduto che si fa causa del desiderio. Separato dal corpo ed eterogeneo al significante, esso non può essere colto tramite l‘intersezione, rappresentabile con i cerchi di Eulero, tra corpo e psiche in cui consiste, in ultima istanza, l‘idea della psicosomatica. Possiamo ritrovarne le coordinate solo attraverso l‘operazione di De Morgan, di cui si serve Lacan, di negazione dei complementari. 1 Cfr. M. Focchi, La lingua indiscreta. Saggio sul transfert come traduzione, Franco Angeli, Milano 1985. 2 Benveniste limita la funzione deittica alla prima e alla seconda persona. In effetti l‘Es freudiano, come precisa Lacan nel seminario sulle psicosi, non è definibile in base alla terza persona, perché è innanzi tutto un tu proveniente dall‘Altro nella forma «tu sei ...». L‘interiorizzazione di questo «tu sei ...» da parte del soggetto costituisce il primo nucleo dell‘Es.
0 Comments
Leave a Reply. |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28 20131 Milano. Tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo Archivi
Novembre 2024
Categorie |