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L’equivoco del linguaggio DOVUNQUE ALTROVE I topoi freudiani e il problema del soggetto nel pensiero psicoanalitico Amelia Barbui e Marco Focchi Capitolo quattordicesimo STRUTTURE FORMALI Dobbiamo ora fare qualche considerazione sulla struttura formale del linguaggio presupposta dalla concezione dell’interpretazione sopra illustrata. Abbiamo visto come l’operazione che mira a misurare l’oggetto a sia in effetti un tentativo di reintegrarlo nell’universo di discorso. L’incommensurabilità tra a e l’Uno conduce infatti allo scacco. Non è dunque possibile realizzare l’universo di discorso. Il linguaggio può dire tutto? Il problema dell’universalità del linguaggio, che risale a Leibniz, è riemerso nella logica e nella matematica del nostro secolo ponendosi nell’alternativa tra incompletezza e inconsistenza. Come ha dimostrato Tarski, un linguaggio per essere universale deve essere inconsistente, ossia deve comprendere anche la contraddizione. La dimostrazione di Tarski si basa sulle conclusioni tratte da Gödel nella matematica per cui se l’aritmetica formale è consistente non è una teoria completa, in quanto la sua consistenza non è dimostrabile con metodi formalizzati nel proprio interno e occorre fare ricorso a un sistema più ampio. Completezza e consistenza si escludono a vicenda: se un sistema è completo risulta inconsistente e se è consistente è necessariamente incompleto. Nella logica e nella matematica si preferisce in genere operare con sistemi incompleti piuttosto che inconsistenti (anche se scuole sudamericane hanno prodotto studi notevoli sulle logiche paraconsistenti) e vengono messe a punto tecniche sistematiche e assiomi per escludere i paradossi, ovvero per evitare l’aberrazione di una equivalenza tra un termine e la sua negazione, e per non incorrere nei risultati che hanno aperto, agli inizi del secolo, la crisi dei fondamenti della matematica. Inconsistenza o incompletezza nella psicanalisi Nella psicanalisi l’inconsistenza del sistema con cui operiamo, l’inconsistenza dell’Altro, non è affatto un inconveniente, perché l’inconscio freudiano ammette la contraddizione. Per altro verso, quando mettiamo in forma il paradosso logico costitutivo del soggetto ci imbattiamo in una incompletezza, una mancanza, ciò che in termini freudiani va sotto il nome di castrazione. Se dovessimo dare una definizione logica del paradiso dantesco, dovremmo dire che è completo e consistente, ovvero non esiste. Non per questo però il nevrotico cessa di credervi, e di considerare la propria vita come una condizione purgatoriale da cui volge lo sguardo nostalgicamente a una perduta felicità edenica o, speranzosamente, a una promessa di là da venire. Persegua la completezza, come l’ossessivo, o la consistenza, come l’isterico, il sintomo maschera, in un vissuto d’impotenza, ciò che in realtà è una impossibilità logica. Prima di spostarci sul piano della clinica consideriamo però le cose dall’inizio. I presupposti logici che abbiamo detto (incompletezza o inconsistenza) segnano la particolarità del rapporto di Lacan con lo strutturalismo. L’ipotesi strutturalista prevede infatti che l’insieme dei significanti sia completo e in grado di designare tutto. Non c’è mancanza nella lingua. Tale ipotesi, in base a quanto abbiamo visto nei capitoli precedenti, è incompatibile con la nozione di soggetto: nella struttura della lingua non si pone il problema dell’interlocutore, che concerne il versante della parola. Lacan ha invece prodotto il proprio sforzo teorico in direzione di una unità strutturale di lingua e parola per far posto al soggetto1. Questo lo costringe a concepire l’insieme dei significanti come non completo. Per realizzare l’unità strutturale di lingua e parola, fa coincidere l’insieme dei significanti della lingua con il luogo dell’Altro, preso come testimone, come garante, cioè come caratterizzato dagli indici propri della struttura della parola. Di conseguenza l’Altro si trova a essere al tempo stesso il destinatario che decide il senso di quel che il soggetto dice, e il luogo del codice che permette di decifrare il messaggio ricevuto. L’Altro Nella nozione di Altro si annodano così proprietà della struttura della lingua, relative all’insieme dei significanti, e proprietà della struttura della parola, relative all’interlocutore. Il soggetto, conseguenza di tale plesso, risulta dal messaggio in cui si designa rivolgendosi all’Altro e che gli ritorna in forma invertita. Il solo modo di riconoscersi come discepolo è rivolgersi all’Altro invocandolo come maestro. Nell’Altro come insieme dei significanti manca il significante che designa il soggetto, il quale può esservi contato solo come mancanza. La sua inscrizione nella struttura è dunque indicata dalla sigla S(A barrata), il significante che manca nell’Altro, ragione per cui può solo farsi rappresentare da un altro significante. Abbiamo così la definizione lacaniana che un significante (S1 che prende il posto della mancanza nell’Altro) rappresenta il soggetto per un altro significante, S2. In tal modo però ogni significante rimanda a un altro in un ordine binario di rinvio, costituendo una concatenazione lineare. Perché questo abbia senso, perché il rimando abbia un punto d’arresto, occorre un significante ultimo in mancanza del quale tutti gli altri non rappresentano niente. Inoltre tale significante non può far parte dell’insieme perché altrimenti rimanderebbe ancora a un altro. Sul piano della concatenazione significante che si dispiega nella dimensione della parola dobbiamo ammettere che esiste un x, dove x è un significante, e x non appartiene ad A, ossia all’insieme dei significanti. Questo si scrive: ∃x Sx . x ∉ A E’ una formula che contraddice l’esigenza strutturalista di completezza significante sul piano sincronico del linguaggio. L’ipotesi strutturalista imporrebbe infatti che per ogni x, x è un significante se e solo se fa parte dell’insieme A di tutti i significanti: ∀x Sx ↔ x ∈ A Sul piano sincronico se vogliamo definire il significante abbiamo la condizione che esso deve appartenere all’insieme dei significanti. D’altra parte, sul piano diacronico siamo costretti a porre l’esistenza di un significante ultimo, S2, a cui rimandano tutti i significanti, che non appartiene ad A. L’inconsistenza L’unione strutturale delle leggi della lingua e della parola mette dunque in risalto l’inconsistenza di A come insieme di tutti i significanti. Il paradosso risultante può essere indicato dalla sigla che abbiamo visto sopra, S(A barrata), ovvero un significante in grado di indicare l’impensabile del soggetto, ciò che sfugge all’identità acquisita tramite le identificazioni significanti. Il paradosso così individuato corrisponde a quel che Freud chiamava ombelico dell’inconscio. L’inconsistenza dell’insieme dei significanti si evidenzia dunque quando viene considerato nella sua duplice dimensione, sincronica e diacronica, dove il valore degli elementi dipende sia dal loro rango, sia dall’ordine di successione. Ma il principio di successione porta con sé il principio d’infinito e di limite nel senso in cui lo abbiamo visto sopra: o la catena significante procede interminabilmente nel rimando o esiste un significante ultimo, eterogeneo rispetto agli altri. Di questo problema si era già reso conto Cantor che aveva distinto due tipi di molteplicità: una che permette di pensare la totalità degli elementi simultaneamente, ed è l’insieme come unità consistente, l’altra non consentendo questa simultaneità porta a una contraddizione. Gödel e Tarski L’intuizione di Cantor viene formalizzata da Tarski che si serve del paradosso del mentitore impiegando il teorema di incompletezza di Gödel. Tale paradosso può essere ridotto al problema di dimostrare se è vero o no l’enunciato: «Questo enunciato non è vero». Indichiamo con L l’enunciato e supponiamo sia vero. Poiché L afferma di non essere vero e ciò che dice è vero, dobbiamo dedurre che se L è vero allora L è falso. Presumiamo ora, al contrario, che L non sia vero. Poiché L afferma di non essere vero, ma ciò che dice è falso, allora deve essere vero; dobbiamo dedurre che se L è falso allora L è vero. In ogni caso L è vero solo se è falso, e il sistema che ammette l’enunciato L risulta inconsistente. Gödel considera un sistema formale che abbia la capacità di esprimere un enunciato analogo, dove non si tratta però di verità ma di dimostrabilità. Invece di: «Questo enunciato non è vero» consideriamo: «Questo enunciato non è dimostrabile» e domandiamoci se è o no effettivamente dimostrabile. Indichiamo P l’enunciato e supponiamolo dimostrabile. In tal caso, poiché esso afferma di non essere dimostrabile, non è vero. Se P è dimostrabile non è vero e il sistema che lo implica risulta incoerente. Supponiamo invece che P non sia dimostrabile. In tal caso ciò che afferma è vero. Se P non è dimostrabile è vero. Di conseguenza P è vero se e solo se P non è dimostrabile. Il sistema in cui P è esprimibile risulta allora o inconsistente, tale da dimostrare enunciati falsi, o incompleto, tale da includere verità non dimostrabili nel sistema stesso. La prova di Gödel fa così saltare il nesso tra verità e dimostrazione, in quanto, se l’aritmetica formale è consistente esiste almeno una formula F tale che né F né non F sono dimostrabili all’interno della sua teoria. Se l’aritmetica formale è consistente non è completa. Su questo esito si innesta la dimostrazione di Tarski che un linguaggio, per essere universale, deve essere inconsistente. Ordine e disordine Lacan, attraverso la struttura del significante, cerca di dare conto dell’ordine e del disordine presenti al tempo stesso nel linguaggio. Per rendere con un’immagine questa possibilità ricorre all’esempio del gioco del lotto. I significanti nella dimensione sincronica sono posti alla rinfusa, come le palline contenenti i numeri prima dell’estrazione. Con l’estrazione però, come le palline, i significanti si dispongono in una successione temporale al cui principio sta la regola fondamentale della libera associazione. Il significante, attraverso i suoi due assi, sincronico e diacronico, rende compatibile il disordine e l’ordine e introduce nella successione un rapporto di causalità. La struttura orientata che ne consegue comprende così l’articolazione per cui un significante rappresenta un soggetto per un altro significante, ovvero il principio di successione che sta alla base dell’ordine soggettivo e che, abbiamo visto, produce un paradosso della stessa natura di quello scoperto da Russell nel 1902. Russell Il paradosso di Russell è relativo all’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi, e per risolverlo in matematica occorre negare l’esistenza di un simile insieme. I significanti, dal punto di vista dell’estensione, possono essere considerati degli insiemi, e quando Lacan sostiene che un significante non significa se stesso e quindi non appartiene a ciò che significa, semplicemente sottolinea, nel caso del significante, questa proprietà degli insiemi di non appartenere a se stessi. Allora A, come insieme di tutti i significanti, può essere considerato come l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi, e di conseguenza incorre nel paradosso di Russell. Siamo così costretti ad affermare che l’Altro non esiste, e se esiste è inconsistente o incompleto. Proviamo però per un momento a mettere tra parentesi questa conclusione e consideriamo il problema nei suoi termini russelliani: A appartiene a se stesso oppure no? Prima di sviluppare il problema ricordiamo che il sistema deve venire considerato nei suoi due aspetti: sincronico (relativo al linguaggio) e diacronico (relativo alla parola). Ciò significa che in tale insieme vi è un ordine di successione per cui possiamo dire che S1 è il primo significante e S2 il secondo. Poiché, come abbiamo detto, il sistema è così costruito da Lacan per tenere conto della problematica del soggetto, possiamo allora domandarci quale sia il rapporto del soggetto con l’Altro, e se il soggetto abbia posto nell’Altro. La risposta è data dalla legge di concatenazione per cui un significante rappresenta un soggetto per un altro significante. Il significante che rappresenta il soggetto può essere siglato S1 e il significante per cui lo rappresenta S2. Per sottolineare l’alterità nella sua funzione limite nella serie «altro significante», S2 può essere indicato da A. Ciò implica dunque che A appartenga all’insieme dei significanti, ovvero appartenga a se stesso. Perché il soggetto possa rappresentarsi, il secondo significante è necessario, e quindi la legge può essere scritta come una implicazione: indichiamo il primo e il secondo significante semplicemente con S e con A e abbiamo: S → A. Si tratta di una formulazione binaria che Lacan ha assunto dallo strutturalismo, a cui si attiene per tutto l’arco del suo insegnamento. Due è il numero minimo di significanti necessari perché uno rimandi all’altro, in modo che l’Uno si trova definito dall’Altro nella differenza. Ciò è coerente con la definizione saussuriana di significante. La coppia ordinata Nel seminario Da un altro all’Altro Lacan organizza i due significanti che indicano il rapporto del soggetto con l’Altro come coppia ordinata (S,A). La coppia ordinata, come si esprime molto semplicemente Quine, è un modo per considerare due cose come una sola senza confonderle. La sua legge impone che S sia sempre il primo termine e A il secondo. Ne consegue che (S,A) ≠ (A,S), mentre se S e A fossero semplicemente elementi di un insieme avremmo {S,A} = {A,S}. {S,A} sono due sottoinsiemi. L’insieme che definisce l’ordine della coppia ordinata (S,A) e invece {{S}, {S,A}} di cui {S} e S e A, come numero minimo di significanti necessario a definire l’ordine binario, possono benissimo rappresentare l’insieme dei significanti nel suo complesso, A, per cui scriviamo: A = S → A A si trova a designare l’insieme dei significanti e ad appartenervi come insieme. L’eguaglianza sopra descritta può dunque essere sviluppata: A = S → (S →A). Da qui si innesca una catena di sostituzioni che può proseguire all’infinito, producendo una serie di cerchi concentrici: A = S → (S → (S → A)) → ∞ Tale operazione di sostituzione è simile alla riduzione infinitesimale di una distanza. Abbiamo così una ripetizione indefinita in una successione di S senza che si riesca con ciò a bloccare l’arretramento di A. A continua a mantenersi nella duplice posizione sia esterna alla serie degli S, in quanto significante che definisce l’insieme, sia interna, come resto irriducibile della sostituzione di A con S → A. Relazione di estimità Il soggetto è allora incluso in A oppure no? Nella misura in cui coincide con il significante ultimo per il quale tutti i significanti lo rappresentano dobbiamo rispondere che se è fuori è dentro e se è dentro è fuori. La serie metonimica della concatenazione significante prodotta a partire da S1 è semplicemente la serie delle identificazioni attraverso cui il soggetto cerca di raggiungere la propria identità portandosi di significante in significante per via dell’alienazione, senza però mai trovare un punto di ancoraggio. L’impossibilità di ridurre, di far svanire A, tramite una successione di sostituzioni significanti indica che S1, il significante padrone che rappresenta il soggetto, non è integralmente sostituibile con S2, il sapere, termine opaco in cui il soggetto si perde. C’è sempre un resto irriducibile al significante, un reale non integrabile nella sostituzione che costituisce l’oggetto a e che compare nella metafora del soggetto L’incoglibilità, l’irragiungibilità di A nella successione che abbiamo scritto, non deve sorprendere, in quanto A è il luogo della rimozione primaria. Non dimentichiamo inoltre di aver indicato con A l’altro significante, S2, per cui il soggetto è rappresentato, come altro assoluto, ultimo della serie. S2 è allora il sapere che si manifesta come mancanza (se A viene escluso da se stesso risultando incompleto) o come inconsistente (se A comprende se stesso risultando contraddittorio). Isteria e nevrosi ossessiva L’ambiguità di A consiste nel fatto che la condizione di partenza esigeva l’inclusione di tutti i significanti (∀ x Sx ↔ x∈ A) e che essa risulta contraddetta dall’esclusione di A come significante (∃x Sx . x ∉ A). Sia dunque che A ∈ A, sia che A ∉ A, A presenta in forme diverse la propria equivocità ed enigmaticità a cui corrispondono i due modi della nevrosi. Possiamo così distinguere una clinica della consistenza, propria dell’isteria, e una clinica della completezza, specifica della nevrosi ossessiva. L’isterico, paladino della verità e della non contraddizione, si scontra con l’incompletezza dell’Altro rinfacciandogliela come impotenza, si pensi, per esempio, al padre di Dora. L’isterico infatti accusa l’inautenticità dell’Altro, la mancanza di fondamento di una verità che può passare solo attraverso la menzogna. L’ossessivo invece, nel tentativo esasperato di perseguire la completezza dell’Altro, si trova a fare i conti con l’inconsistenza, potremmo dire la menzogna come inaffidabilità dell’Altro: il sistema completo e inconsistente dimostra infatti enunciati falsi. Da qui il dubbio, che l’ossessivo non può sciogliere logicamente, tra una cosa e il suo contrario, privandosi della possibilità di scegliere. L’esempio migliore per questo è la coazione a fare una cosa e il suo contrario, come l’uomo dei topi con il sasso sulla via dove passerà la carrozza della sua bella. Sia per l’isterico, sia per l’ossessivo la posta in gioco è il nucleo di sapere della rimozione primaria da cui, con modalità diverse, il soggetto è escluso, senza potersi a questo rassegnare. L’esclusione Per l’isterico A non è compreso nell’insieme (A ∉ A) e, come ultimo significante in rapporto a cui tutti gli altri rappresentano il soggetto, viene assolutizzato nella sua eterogeneità: A →Sl Sll Slll Sllll ... S2, nella misura in cui viene assolutizzato come A deve restare fuori dall’insieme che ha dunque un significante in meno. Tenere fuori S2 corrisponde alla modalità di rimozione per amnesia propria dell’isteria. Il soggetto è così escluso dal sapere assoluto in quanto manca sempre un termine per far tornare i conti. Il rimando Per l’ossessivo invece A non viene escluso (A ∈ A). A che include se stesso può rappresentare il sapere assoluto che l’ossessivo ha sempre di mira senza mai poterlo raggiungere. Si produce infatti una ripetizione metonimica di significanti in cui si sviluppa il tipico rinvio all’infinito: l’ossessivo non si sente mai pronto alla prova perché gli manca sempre qualcosa per far quadrare il bilancio.
Il nucleo essenziale del sapere resta sempre fuori della sua portata facendogli sentire la sua inadeguatezza. L’S2 che completerebbe il sapere è sempre un po’ più in là, in modo che risulta impossibile rendere esplicito cosa di A c’è nell’Altro. Ogni volta che l’ossessivo tenta di afferrarlo si produce una sequenza ordinata di S che si possono considerare uno per volta, come i numeri naturali, senza mai arrivare in fondo. A resta inespugnabile come un elemento in più che non si riesce mai a ridurre. D’altra parte, per far tornare i conti, l’ossessivo si impegna proprio a eliminare l’elemento in più, manifestando la sua caratteristica aggressività. L’ambiguità per cui i conti non tornano Né per l’isterico né per l’ossessivo i conti tornano. L’ambiguità dell’Altro, espressa in modo diverso nei due casi, è visibile nello sviluppo della formula A → S(A) che si regge sulla duplice posizione dell’Altro come nome dell’insieme e al tempo stesso nome di un elemento dell’insieme. L’equivoco come possibilità del significante si fonda logicamente sull’ambigua posizione di A. In qualsiasi modo il soggetto si rapporti a esso, sia nella posizione in cui A comprende se stesso, sia nella seconda limitandosi a elemento che non comprende se stesso, S2 risulta sempre esterno. Il problema non è dunque tanto che il soggetto non sia incluso nel campo dell’Altro, ma piuttosto che il punto S2 in cui si significa come soggetto è un punto esterno all’Altro e quindi esterno all’universo di discorso. Vedremo nel prossimo capitolo le conseguenze cliniche di questa struttura in un caso di nevrosi ossessiva. 1 Cfr. J.-A. Miller, “S’trucdure”, Pas tant, n. 8-9, 1985
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