![]() DOVUNQUE ALTROVE I topoi freudiani e il problema del soggetto nel pensiero psicanalitico Amelia Barbui e Marco Focchi PARTE SECONDA LA DUPLICITà SEMANTICA DEL SINTOMO Capitolo ottavo La trasformazione del pensiero di Freud negli anni Venti ha posto nuovi problemi di carattere epistemologico a cui le scuole psicanalitiche hanno dato soluzioni differenti. Ciò ha avuto riflessi sul piano istituzionale, ma ha rivelato la sua importanza soprattutto nei diversi orientamenti clinici che ne sono derivati. Unità della psicanalisi nella diversità delle scuole La clinica psicanalitica ha un’unità di fondo, al di là degli indirizzi e degli obiettivi in cui si specifica che le proviene dall’impostazione freudiana. Non è infatti erede della tradizione psichiatrica, e si confronta con essa quando i propri fondamenti strutturali sono già costituiti: nella continuità terminologica i concetti poggiano su basi epistemiche diverse. Quanto alla psicologia, essa non ha mai avuto un indirizzo clinico prima della nascita della psicanalisi, e solo una serie di successive ibridazioni ha dato luogo al gran numero di psicoterapie oggi esistenti. Il pollone junghiano e quello adleriano, staccatisi dal ceppo freudiano, seguono una evoluzione propria che non rivendica l’appartenenza alla psicanalisi. All’interno della tradizione freudiana le tre aree principali si rifanno a Harmann, a Klein e a Lacan, e producono orientamenti clinici diversificati nei presupposti e negli obiettivi. Le conseguenze si sentono però anche sul piano della formazione: la corrente ortodossa, che risale a Hartmann, e la scuola kleiniana, sono rimaste unite istituzionalmente a prezzo di costosi compromessi. A Londra, per esempio, il curriculum didattico è diviso in due iter diversi tra i quali il candidato deve scegliere all’inizio. Il caso di Lacan e quello di Alexander La scuola nata dall’insegnamento di Lacan ha invece dovuto costituirsi su nuove basi istituzionali. La polemica, sorta sullo spunto delle cosiddette «sedute brevi», ha portato infatti a una scissione rivelatasi insanabile. «Sedute brevi» è una denominazione impropria per una pratica che consiste nell’assegnare un tempo variabile alla durata delle sedute per sfruttare, a vantaggio dell’interpretazione, la scansione terminale. Se la durata della seduta non è prestabilita in un tempo quantificato, la sua interruzione non è automatica ed esige una decisione. La scadenza del tempo, anziché dipendere da una routine regolata dal cronometro, diventa un atto che richiede l’intervento dell’analista. La seduta può prolungarsi o contrarsi rispetto all’aspettativa del soggetto in quanto ciò che conta è l’imprevedibilità del termine, scelto in modo da risultare significativo. Sul piano tecnico non sembra una innovazione tale da dover scuotere le basi istituzionali di una disciplina consolidata quale era la psicanalisi nel dopoguerra. Tuttavia la diversificazione teorica sui principi, che si produceva in quegli anni nella riflessione psicanalitica, aveva come contropartita un irrigidimento sulle regole tecniche viste come denominatore comune di un panorama sempre più complesso e differenziato. Negli stessi anni anche Alexander aveva suscitato polemiche non per le sue teorie, ma per le varianti tecniche introdotte nella cura: riduzione del numero delle sedute, esperienza emotiva correttiva, periodiche interruzioni del trattamento. L’obiettivo di ridurre la dipendenza dal transfert si era trasformato, nelle accuse mossegli da Merton Gill, in quello di voler punire i pazienti per il transfert, impedendo loro una completa regressione e quindi ogni possibilità di analisi. Le regole tecniche erano dunque il punto sensibile nell’establishment istituzionale perché apparentemente ne costituivano il solo fondamento unitario. Etica dell’atto ed etica dell’ideale: un problema epistemologico Nell’innovazione di Lacan, con sguardo retrospettivo, oggi siamo in grado di cogliere il presupposto epistemologico celato nella mera variazione tecnica. Più che la regola era infatti toccato un principio. Se il termine della seduta non è stabilito in modo automatico, la decisione dell’analista che si rende così necessaria prefigura la nozione di atto cui Lacan dà sviluppo concettuale solo con il seminario del 1967-1968. Una conduzione della cura incentrata sulla nozione di atto si trova naturalmente in contraddizione con una pratica basata sugli standard e le regole tecniche. Viene in luce con Lacan una vera e propria crisi dei fondamenti. Da cosa sono giustificate le regole in cui è codificata la pratica psicanalitica? Ciò che Freud, molto sobriamente, aveva chiamato consigli, si era trasformato in prescrizioni. Dirsi freudiani non voleva più dire inscriversi nella linea di ricerca aperta da Freud, ma agire nella pratica come lui stesso agiva. Formulare degli standard significava determinare un modello di comportamento per l’analista e, in altri termini, stabilire un ideale etico in grado di cementare l’istituzione pur nella sua varietà dottrinaria. Certamente tanto Alexander quanto Lacan contraddicevano, nella loro pratica, tale ideale, e se il primo non incorse in sanzioni fu perché morì prima che i nodi fossero giunti al pettine. Ma cosa si rivela dietro la crisi dell’ideale normativo, e quale etica diventa possibile per la psicanalisi se esso viene meno? La risposta di Lacan si è sviluppata nel seminario del 1959-1960: l’etica della psicanalisi è un’etica del desiderio. Prescindendo dalle vicissitudini istituzionali che accompagnano il nuovo orientamento della pratica, ci interessa valutare gli effetti che, nella lunghezza storica, un simile sviluppo porta nel pensiero psicanalitico e in particolare nella clinica. Dal punto di vista epistemologico, come dicevamo, si tratta di una vera e propria crisi dei fondamenti. Se l’arché della psicanalisi è l’atto anziché l’identificazione, diventa impossibile determinare un principio guida esterno alla pratica (quale potrebbe essere, per esempio, l’ideale dell’adattamento sociale) e ne consegue l’inscindibilità di clinica ed etica. Hartmann cerca le basi epistemologiche della psicanalisi rivolgendosi al modello delle scienze naturali, attingendo al dibattito sulle Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften. Lacan mette al vaglio i concetti psicanalitici chiave dall’interno della pratica stessa senza rivolgersi a modelli esterni come la psicologia, la medicina, o le scienze fisiche. La nozione di atto è l’esito della riflessione volta alla ricerca di un fondamento peculiare alla psicanalisi. Nei presupposti di Hartmann, in cui le scienze naturali sono il modello epistemologico della psicanalisi, l’inconscio deve essere formulato in un corpo di ipotesi teoriche coerente che trova verifica e applicazione nell’esperienza clinica. Nei presupposti di Lacan, dove la psicanalisi ha un formalismo proprio, il cui carattere peculiare non respinge i paradossi scoperti dalla matematica del nostro secolo, l’inconscio può essere formulato nei limiti individuati da Gödel per ogni sistema formale: o incompleto o inconsistente. L’atto segna l’impossibilità per il corpo teorico di chiudersi su se stesso e di costituirsi come insieme coerente di ipotesi passibile di applicazione. La nozione di applicazione può essere un terreno su cui saggiare la differenza tra il modello epistemologico delle scienze galileiane e quello psicanalitico. La scienza è eminentemente applicabile perché è un apparato concettuale che può essere rivolto a fini pratici e la tecnologia ne è l’esempio più trasparente. Cosa significa applicare? Molto semplicemente significa mettere una cosa sopra un’altra. Si può anche pensare di mettere il linguaggio sopra il linguaggio. Si ottiene così ciò che la logica simbolica moderna ha chiamato metalinguaggio, un linguaggio formalizzato che, astratto da quello naturale, è a esso anche applicabile. Sappiamo che Lacan ha criticato il concetto di metalinguaggio, in un modo che implicitamente mette in discussione la nozione di applicazione e di psicanalisi applicata. Nata dal contesto clinico, la psicanalisi, una volta costituiti i propri concetti, ha trovato modo di estendere la riflessione ad altri campi, dall’antropologia, alla letteratura, alla mitologia. Si è potuto pensare, a un certo punto, che la clinica fosse una delle possibili applicazioni della psicanalisi, ma quest’idea presuppone un corpus teorico in sé costituito, come strumento interpretativo forte, al vaglio dei cui concetti possono venir filtrate le altre discipline. Il concetto di applicazione L’idea di psicanalisi applicata ha trovato il rappresentante maggiore in Kris, il solo non medico tra i fondatori dell’ego psychology, che più di altri ha indirizzato i propri studi ai problemi dell’arte e della sublimazione. La nozione di applicazione implica una separazione tra teoria e prassi difficilmente sostenibile nel campo psicanalitico. L’interpretazione, come abbiamo visto, presuppone il transfert, in quanto non funziona in base a un codice, foss’anche quello edipico. In termini rigorosi, una teoria psicanalitica non è dunque applicabile neanche alla clinica, perché senza l’aggancio del transfert, che fa emergere la particolarità del lessico pulsionale del soggetto, l’universalità del codice gira a vuoto. La possibilità di applicazione della scienza invece deriva dal fatto che essa trae i propri dati dalle cose, per via induttiva, e dopo averli universalizzati può nuovamente rivolgerli alle cose. L’aspetto empirico della scienza valorizza il principio induttivo, che va dal particolare all’universale. Tale principio subì una forte scossa da parte dell’empirismo radicale. Hume ne rifiutò la possibilità stessa con la semplice riflessione che per quanto si raccolgano dati non si arriverà mai ad averli tutti. L’esperienza insegna che tutti i corvi sono neri, ma non siamo in grado di escludere logicamente la possibilità di un corvo bianco. A partire dall’esperienza non ci è consentito, su base logica, passare dai singoli momenti particolari al concetto universale. Ciò ha portato alla critica dei concetti di sostanza e di causalità, essenziali allo sviluppo stesso della scienza, eleggendo, al posto dell’universale, l’abitudine. Lo scetticismo di Hume risvegliò la riflessione critica di Kant, preoccupato di adeguare il passo della filosofia alle esigenze della scienza. I risultati di tale riflessione spinsero Kant a superare l’impostazione della logica analitica aristotelica fondata sul principio di non contraddizione (a cui si rivolgevano gli strali di Hume) in direzione della logica trascendentale, fondata sul principio supremo dei giudizi sintetici a priori. Su di esso si basa la nozione di applicabilità. Nel periodo giovanile Kant si era posto il problema di come la matematica potesse applicarsi ai fenomeni reali. Se disponiamo della nozione astratta, geometrica, di un quadrato, nella realtà non troviamo tuttavia nulla che corrisponda a un simile ideale matematico. Il principio supremo dei giudizi sintetici a priori risolve il problema dell’applicabilità, sostenendo che le condizioni di possibilità dell’esperienza, cioè l’insieme di intuizione pura spazio-temporale e dei concetti categoriali puri dell’intelletto, sono le condizioni stesse di tenuta, di durata e di oggettività dei fenomeni a cui la matematica si applica. Proprio perché consideriamo i fenomeni in modo matematico – in quanto la matematica è la condizione, l’a priori, attraverso cui i fenomeni si affacciano alla conoscenza – possiamo applicarvi la matematica. La definizione, in altri termini, è circolare: la matematica è applicabile ai fenomeni perché matematici sono i presupposti che ci consentono di considerarli. Questo implica la nozione, data per scontata nel pensiero scientifico, di verità come corrispondenza. Particolare e universale Il problema del passaggio dal particolare all’universale è dunque risolto da Kant con la logica trascendentale il cui principio è diverso da quello di non contraddizione. Come si presenta per la psicanalisi il problema del passaggio dal particolare all’universale? Una delle indicazioni fondamentali di Freud è di affrontare ogni caso come se fosse il primo, di non affidarsi mai a un sapere preconcetto. La clinica procede sempre dal particolare al particolare. Detto così sembra in linea con l’empirismo radicale di Hume. Ma non è certo l’abitudine la soluzione che la psicanalisi dà al problema dell’induzione. Innanzi tutto, l’indicazione freudiana significa che nella pratica non procediamo per via applicativa, che non abbiamo un corpus di concetti universali da applicare alla clinica. Con questo non siamo però lasciati all’indifferenziato. L’attenzione sospesa (Gleichschwebende Aufmerksamkeit) non è un’attenzione alla deriva. La clinica è strutturata. Cosa significa? Possiamo considerare la differenza tra il modello e la struttura: il primo è qualcosa di esterno alla realtà che tenta di spiegare, ne riproduce i rapporti, ma dal di fuori. Per esempio il modello dell’atomo di Rutherford può essere costruito con un sistema di sfere simile al sistema solare, ma non è l’atomo stesso. Il modello e la realtà che spiega sono due cose diverse. Cos’è la struttura nel linguaggio? La struttura, nella nozione moderna emersa con Lévi-Strauss, non è invece esterna alla realtà che spiega. Essa si specifica rispetto al modello per il fatto di non essere opposta a un contenuto, ma di essere il contenuto stesso colto nella sua organizzazione logica, una concretezza colta nei suoi rapporti, una logica come proprietà del reale. Un filo concettuale collega la definizione di struttura di Lévi-Strauss con l’impostazione kantiana sopra esaminata. Lacan considera la struttura dal punto di vista della topologia. In uno scritto degli anni Settanta, L’étourdit, la definisce come il reale che si fa luce nel linguaggio. Curiosamente questa definizione della struttura – che è antitetica alla metafora – è data in una metafora e può far pensare al linguaggio come una sorta di mezzo attraverso cui il reale si illumina. Non è questo però il senso della definizione. Non c’è da una parte la struttura e dall’altra il linguaggio, come fossero due cose diverse che possono sovrapporsi, compenetrarsi o applicarsi l’una all’altra. La definizione dice qualcosa di diverso, e cioè che il linguaggio porge due versanti. Da una parte svolge una funzione nella comunicazione, significa qualcosa, rimanda a un referente, rappresenta il soggetto. Dall’altra, prescindendo dalla funzione, il linguaggio si presenta nella propria realtà, in ciò che è. Preso da questo versante è struttura. «La struttura è il reale che si fa luce nel linguaggio» oltre che una definizione, risulta così una indicazione clinica. Nella pratica non si tratta di seguire dei modelli e tuttavia la clinica è strutturata. Ciò risulta ora chiaro: significa che in quel che il soggetto dice in analisi, rispetto al versante referenziale del linguaggio è da privilegiare quello strutturale. Più che la realtà narrata occorre considerare il reale del narrare. L’atto psicanalitico è l’inverso del contratto Una clinica orientata strutturalmente non ricorre a una legge esterna agli elementi in gioco, neutra rispetto a essi; la nozione di atto viene al posto della mancanza di questa legge. Consideriamo, a titolo d’esempio, la nozione di contratto analitico che può avere posto solo in una pratica fondata sulle regole. Un contratto non mette certo al riparo i contraenti dall’imprevisto, dalla violazione, dalla forzatura, ma enuncia esplicitamente la legge entro cui il rapporto è codificato. Fa riferimento a un terzo elemento, esterno al rapporto stesso, che funge da garante e ha il compito di chiarire gli equivoci, sedare i contrasti, appianare i conflitti. Se, per esempio, è pattuito un certo numero di sedute in determinati giorni della settimana, ogni variazione risulta esplicitamente in deroga o in violazione agli accordi. Non costituisce un enigma, non produce un interrogativo, non chiama in causa il desiderio. La regolarità, al tempo stesso, solleva l’analista da una certa responsabilità, rimessa al garante esterno che può essere incarnato dall’istituzione stessa degli accordi. L’atto psicanalitico è invece diametralmente opposto al contratto. E’ una decisione che lascia integralmente la responsabilità all’analista, senza appello a un’istanza superiore, rendendo forse meno lineare la conduzione della cura, ma più adeguata alle sue contingenze, alle sue svolte improvvise, alle sue fughe in avanti e ai suoi momenti di stallo. Se c’è un garante della legge chiamato in causa dal contratto analitico, sarà esclusa la funzione dell’Altro che inganna, essenziale, come abbiamo visto negli esempi dei capitoli precedenti, per introdurre alla verità soggettiva nella certezza dell’angoscia. L’orientamento clinico fondato sulle regole ha come punto di mira l’ideale come forma di garante ed è condotto sul filo dell’identificazione; quello fondato sull’atto è imperniato sull’etica del desiderio, dove la mancanza non è velata dall’ideale. Interpretare la resistenza? Un’altra differenza riguarda la risposta al problema della resistenza. Nel modello della psicologia dell’io, fondato sul rispecchiamento tra prassi e teoria, essa viene forzata nel cosiddetto confronto con la realtà e affrontata tramite l’interpretazione o la spiegazione: il soggetto deve cedere a un certo buon senso che gli mostra qual è il suo vantaggio effettivo. Nel modello di Lacan la resistenza emerge invece da una necessità di struttura, in quanto risulta dalla scelta alienante costitutiva del soggetto. Sia nel caso della prima alienazione, sia in quello della seconda, la resistenza è relativa all’impossibilità per il soggetto di scegliere diversamente da come ha fatto. Essa cade fuori dal campo dell’interpretabile perché proviene dal limite indicibile del linguaggio e può essere trattata, attraverso l’atto, solo tornando sul terreno della scelta. L’atto tocca infatti il limite dell’interpretabile perché corrisponde al significante non in quanto significa ma in quanto è: concerne il linguaggio che, deposto dalla funzione di significare, si contrae alla propria istanza essendo la mancanza, e investe l’essere nel punto in cui, inassimilabile al senso senza essere insignificante, si presenta come mancato al linguaggio. Sono due piani limite della semantica, articolabili in base alle due forme di alienazione definite da Lacan. La semantica e le due alienazioni Nel seminario XI la scelta si presenta tra l’essere e l’Altro dove, per avere il senso, il soggetto è costretto a perdere, insieme all’essere, una parte dell’Altro raffigurata dalla lente d’intersezione che include il non senso. Il non senso forma così il nucleo della rimozione che manca all’ipotetica pienezza di senso. VEDI SCHEMI A FONDO PAGINA Nella seconda alienazione la scelta si propone tra la negazione dei complementari dove, per non perdere l’essere, il soggetto si ritira nella posizione non penso, rinunciando alla parte d’essere che è non-io e in cui riconosciamo il godimento. Poiché si nega l’intersezione del cogito cartesiano, va perduto anche il punto d’articolazione costituito dall’ergo: è un propter vitam perdere causam. Le due scelte sono tra loro congruenti, come risulta chiaro se consideriamo cosa viene rifiutato nei due casi. Nel primo il soggetto rifiuta di negare il senso, a costo di perderne una parte. Nel secondo esclude la negazione dell’essere (¬E) al prezzo di una sua porzione non insignificante anche se impensabile. In entrambi i casi il soggetto rifiuta di perdere qualcosa la cui completezza viene intaccata o come senso o come referente. Si verifica così una perdita su due versanti che la logica classica ha distinto nella semantica come Sinn e Bedeutung. La duplice incompletezza semantica, derivante dalle scelte, riflette le due operazioni di alienazione che vanno a discapito del soggetto, i cui nomi freudiani sono rimozione e perdita d’oggetto. Una lettura in chiave puramente strutturalista dei primi seminari di Lacan può mettere in risalto la posizione secondaria assegnata alla semantica rispetto alla sintassi. I testi successivi valorizzano però l’opposizione tra Sinn e Bedeutung incentrandovi l’effetto dell’interpretazione che è del senso, Sinn, e va contro la significazione, Bedeutung. Questa idea, contenuta nell’Etourdit, risulta comprensibile se pensiamo alla struttura del sintomo. Il sintomo Per Freud il sintomo è uno dei concetti più chiari dell’impianto teorico della psicanalisi: formazione di compromesso, riesce a soddisfare le esigenze pulsionali inconsce in una forma mascherata, tollerabile per la coscienza. Mantiene dunque larvatamente il senso perduto con la rimozione e recupera il godimento come tornaconto secondario. Esso è dunque un complemento semantico alla duplice perdita costitutiva del soggetto e viene al posto dell’ergo negato nell’intersezione, ristabilendo una certa forma del rapporto, altrimenti impossibile, tra il soggetto e l’Altro. L’arco dell’insegnamento di Lacan traversa la duplice concezione del sintomo presente in Freud. Nell’istanza della lettera nell’inconscio, per esempio, esso viene definito come una metafora il cui significato è rimosso; l’accento è dunque posto sul senso e sul messaggio. Ma nei seminari degli anni Settanta Lacan lo definisce piuttosto come un modo di godere dell’inconscio, ponendo l’accento sull’oggetto di godimento. La nozione di sintomo richiede entrambi questi versanti. Per accordare il soggetto con l’Altro deve infatti dar voce alla particolarità oscena dell’esigenza di godimento pulsionale del soggetto nella forma universale riconoscibile nel codice dell’Altro e, nascondendo il godimento indicibile nella forma in cui trova espressione significante, parla l’idioletto di un messaggio cifrato. Freud riconosceva nella dedizione libidica al sintomo il versante asociale della nevrosi, dove il rapporto con l’Altro, opacizzato, è messo al servizio del narcisismo. Ancora la donna dei biancospini Nel caso della donna dei biancospini, per esempio, il rapporto con l’Altro può mantenersi solo se ne è provato lo spassionato disinteresse, e il legame con il cieco si rompe non appena si rivela in lui il desiderio di un lucro economico. Il denaro in questo caso metaforizza l’interesse che, all’origine, nel fantasma inconfessabile della relazione incestuosa con il padre, era puramente di carattere sessuale. Il sintomo principale nella vita della donna divenne così la spinta irrefrenabile a far debiti con tutte le persone con cui entrava in contatto, e non appena il debito era estinto le relazioni si interrompevano. In modo trasparente il debito, come sintomo, mantiene dunque il rapporto del soggetto con l’Altro. Il denaro mette in forma dicibile l’inconfessabile «voglio che tu goda di me» celato nel fantasma di seduzione. Il compromesso si rivela nella scelta delle persone con cui contrarre debiti. Per quanto molti si mostrino disponibili a concederle prestiti senza intenzioni speculative, lei si rivolge a quanti glieli accordano con fini remunerativi e, «contro i propri interessi», nei rimborsi dà la precedenza ai primi. Il debito cancella così l’interesse consentendo il rapporto, ma al tempo stesso per più aspetti lo conserva, mantenendo sul piano fantasmatico la donna nella posizione in cui sostiene il godimento dell’Altro. Formalizzato nella metafora del denaro il sintomo ha come contenuto rimosso il fantasma di seduzione e il denaro diventa il grosso problema della sua esistenza. Il senso rimosso concerne una tematica sessuale, e si esprime, come abbiamo visto, nei fantasmi di prostituzione che la conducono tra le braccia del suo contrabbandiere. Sul piano del lavoro gli stessi fantasmi la portano a una serie di incongruenze che la tengono costantemente sospesa a un filo: il denaro-godimento deve sempre mancare, travolgendola in un giro di debiti e debitori vieppiù incontrollabile. Nella definizione freudiana del sintomo come stato nello stato riconosciamo non solo una estraneità rispetto all’io, ma anche l’incongruenza relativa alla coerenza del sistema logico su cui si basa l’io. La consistenza dell’io si fonda infatti sull’esclusione del non senso rimosso con la prima alienazione. Ma il sintomo, in una metafora criptica, reintroduce questo stesso non senso nel sistema logico dell’io producendone l’inconsistenza. Una simile contraddizione logica può non creare problemi al soggetto, finché non viene investita di un contenuto fantasmatico che la carica libidicamente. Impotenza o impossibilità I due versanti del messaggio e del godimento che compongono il sintomo sono così un involucro formale, da intendere nel senso più propriamente logico, e un contenuto fantasmatico il cui oggetto è, in ultima istanza, il godimento dell’Altro. Se il nevrotico, ottenendo con l’analisi un vantaggio sul sintomo, è esposto all’idea che l’Altro goda di lui, è perché l’interpretazione ne mette in luce l’elemento contenutistico e, facendo svanire lo schermo fantasmatico e l’oggetto sostitutivo di cui l’Altro gode, fa sì che il soggetto si senta investito direttamente. Il sintomo di fatto ha la funzione di sostenere il godimento dell’Altro. Finché l’incongruenza logica è dalla parte del soggetto, è vissuta come incapacità di raggiungere la forma corretta del rapporto con l’Altro, in quanto il sintomo attinge all’impotenza del fantasma. Ma quando l’interpretazione lo svuota di contenuto, l’incongruenza è rigettata sull’Altro facendone emergere l’inconsistenza. L’impossibilità logica di formalizzare il rapporto con l’Altro prende allora il posto dell’impotenza soggettiva. Si verifica così l’inversione tra sintomo e sublimazione, dove l’impotenza del fantasma si ribalta nella possibilità creativa della fantasia. Dal sintomo alla sublimazione Questo passaggio risulta più chiaro se riconosciamo nei due versanti del sintomo, messaggio e godimento, gli assi semantici del Sinn e della Bedeutung. Il Sinn, senso, è la congruenza con un ordine logico: una frase ha senso finché è formulata in modo grammaticalmente corretto, come dimostra suo malgrado l’esempio di Chomsky: green colourless ideas sleep furiosly. Bedeutung è invece un termine più ambiguo che può rimandare tanto al significato quanto al referente. Il saggio di Frege è infatti tradotto in italiano sia come Senso e significato, sia come Senso e denotazione. Bedeutung è quindi sia l’aspetto concettuale della parola, sia l’oggetto cui rinvia. Prendiamo a esempio la Divina commedia. Per i contemporanei di Dante, cresciuti, educati e vissuti nella società teocratica tardo medioevale, l’impatto concettuale del poema era senz’altro più immediato che non per il lettore contemporaneo, avvezzo a un sistema ateologico dove dio è un’ipotesi superflua. Anche per il credente i concetti di inferno, purgatorio e paradiso sono oggi senz’altro più scarnificati, più astratti, meno visivi di come potevano apparire in un mondo in cui non esisteva l’ateismo. Ma il senso dell’opera, dove la plasticità dei tre regni ultraterreni vive di una bellezza il cui rigore formale non è in nulla debitore del contenuto concettuale, è in grado oggi come allora di toccare, nella sua immediatezza, chi vi si avvicina dopo aver dimenticato la noia dell’ora di italiano al liceo. L’involucro formale del sintomo è dato dal senso, la cui coerenza logica si contrappone a quella dell’io, e la Bedeutung è il godimento intrattenuto dal fantasma. Quanto più l’interpretazione decifra il senso, tanto più procede a svuotarlo del contenuto di godimento svelando, in ultima istanza, l’inesistenza dell’Altro. La decifrazione infatti da una parte, facendo passare il soggetto dall’impotenza all’impossibile, chiarisce l’inconsistenza dell’Altro e l’irrealizzabilità di un rapporto logico, rendendo superflua la funzione del sintomo, dall’altra, svuotando di godimento, palesa la mancanza dell’Altro, la sua incompletezza. Nel momento in cui il sintomo è svuotato di godimento resta però una struttura formale, un senso destituito dalla funzione, rivelatasi impossibile, di formalizzare il rapporto con l’Altro. La sua struttura si svela inconsistente e non è più agganciata al fantasma che ne costituiva il contenuto. Abbiamo così una struttura svuotata di significato, ma non priva di senso, dove si realizza, nello sganciamento tra sintomo e fantasma, l’inversione nella potenza creativa della fantasia. La sublimazione è resa possibile dalla struttura di senso liberata dal significato in cui riconosciamo, nell’identità di forma e contenuto propria della dimensione mitopoietica del linguaggio, la funzione della fantasia. La fantasia si caratterizza per il fatto che la forma del sintomo, evacuato il contenuto di godimento, sarebbe un puro gioco di relazioni logiche universali disponibili per qualsiasi combinazione, ma inutilizzabili se l’inversione non portasse il particolare di quello svuotamento nella forma universale. La forma vuota non è semplicemente un insieme di relazioni universali, ma include la particolarità di un determinato vuoto, come marchio della soggettività. La particolarità allora non si esaurisce più nell’idioletto del sintomo, ma entra nelle forme universali in cui risulta socialmente fruibile. Lo sganciamento del senso del sintomo dal significato fantasmatico dà luogo all’inversione della fantasia, costituita dalla forma vuota (universale) e dal vuoto stesso, segnato dalla particolarità del godimento evacuato, che lascia dietro di sé la matrice della misura soggettiva. La dimensione logico-concettuale del linguaggio esclude il vuoto: la funzione referenziale rimanda infatti ai concetti. Ci può essere una casella vuota, ma non un «concetto vuoto senza oggetto». La dimensione mitopoietica include invece il vuoto del senso in cui tale casella è occupata dal vuoto. Quel che era godimento lascia una lacuna che viene a far parte della forma. Non si tratta della forma vuota della logica (universale) ma della forma che contiene un vuoto (particolare). L’evacuazione del godimento patologico della nevrosi lascia così spazio al desiderio che consente, per via di sublimazione, un recupero di godimento o plusgodere. Il senso effettivo della creazione ex nihilo La creazione presuppone un vuoto, ed è giustificata dall’evacuazione del contenuto di godimento del sintomo, che libera il senso come forma vuota della fantasia. L’origine di ciò che viene al mondo come nuovo, sia esso produzione artistica o banausica, è questo vuoto, questo non senso messo in libertà con la revoca della rimozione. L’inesauribilità di contenuti dell’opera d’arte, la sua ricchezza semantica, la sua surdeterminazione, dipendono dall’esaurimento del contenuto dell’Altro, ridotto alle proprie matrici strutturali, alla dimensione mitopoietica del linguaggio come sede attiva della parola. L’opera d’arte non crea dunque illusioni, ma produce la realtà dell’oggetto di desiderio, nello stesso modo in cui l’opera artigianale produce l’oggetto banausico. Il senso messo in libertà dal referente è inesauribile perché di fatto è un non senso e procede dall’inesistenza dell’Altro, dalla sua vacuità. Esso è autenticamente creazione fondata sull’ex nihilo, dove i contenuti sono inesauribili perché attinti dal godimento dell’inconscio che l’opera d’arte sa captare in coloro che vi si accostano. Anche il sintomo, come la fantasia da cui procede la sublimazione, include la mancanza dell’Altro, ma si basa sul fantasma come ipotesi di una completezza consistente. Nella fantasia invece la mancanza è correlata all’inconsistenza: l’Altro è incompleto o inconsistente, non esiste come totalità compiuta. Alla forma vuota della fantasia corrisponde la materialità inconsistente dell’Altro. Nel corso dell’analisi, tuttavia, il sintomo può svuotarsi senza che sia riconosciuta l’inconsistenza dell’Altro e può prestarsi a nuovi contenuti fantasmatici anziché invertirsi nella fantasia. Sintomo e fantasma Freud, nel caso di Dora, aveva già notato la particolare persistenza del sintomo. Osserva infatti che, oltre a corrispondere a più significati – Bedeutungen – contemporaneamente, esso può esprimere anche più significati successivamente. Per un verso può corrispondere a diversi fantasmi nella struttura della surdeterminazione, per un altro può includere diversi fantasmi nello sviluppo cronologico. Con il passare degli anni infatti il sintomo può modificare il proprio significato principale – Hauptbedeutung – oppure il ruolo principale può passare da un significato all’altro. «E’ come se ci fosse nella nevrosi un elemento conservatore, per cui il sintomo, una volta costituito, viene mantenuto, per quanto possibile, anche quando il pensiero inconscio che in esso trovava espressione ha perso la sua Bedeutung». La versione Boringhieri traduce Bedeutung con «importanza» anziché «significato» sciogliendo la continuità del discorso. Risulta invece chiaro che il pensiero inconscio perde la Bedeutung nel senso in cui viene svuotato del godimento che tratteneva. «La costituzione di rapporti associativi tra un nuovo pensiero che ha bisogno di scaricarsi, e il vecchio, che ha perso tale bisogno, sembra più facile della creazione – Schöpfung, termine che ha qui interesse se ci riferiamo al rapporto tra il sintomo e la sublimazione - di una nuova conversione». Il contenuto di un sintomo è dunque indicato in un pensiero inconscio, che può benissimo essere la frase del fantasma. Quando il pensiero inconscio ha esaurito il proprio contenuto di godimento è più facile che un nuovo pensiero inconscio trovi espressione nella forma di sintomo già costituita, anziché crearne uno nuovo. Vien più semplice creare nuove associazioni tra i pensieri inconsci che non nuovi sintomi. «Lungo la via così aperta – prosegue Freud – l’eccitamento fluisce dalla sua nuova fonte – [il nuovo fantasma] – verso l’antico punto di scarico – [l’involucro formale mantenutosi] – e il sintomo somiglia, nelle parole del Vangelo, a un vecchio otre riempito di vino nuovo». E’ uno dei rari riferimenti di Freud al Nuovo Testamento. Dal Vecchio Testamento, familare fin dall’infanzia per via della sua appartenenza etnica, Freud ha fatto rinascere la figura di Mosè nelle vesti di nobile egizio, dando in Mosè e il monoteismo una delle più affascinanti interpretazioni del mito ebraico. Il Vangelo non può invece vantare altrettanti titolo di presenza nell’opera freudiana. La parabola citata si trova nel Vangelo secondo Matteo (9, 17) e riguarda il digiuno cristiano. Nel momento in cui i farisei chiedono a Gesù perché, contrariamente a loro, i suoi discepoli non digiunano mai, Gesù risponde con due paragoni: «Se ritagliate una toppa da un vestito nuovo per rammendare quello vecchio, non avrete più il nuovo e siete privati anche del vecchio perché la tela nuova tira su quella consumata strappandola». E’ come se nella scelta tra la borsa o la vita si avesse la maldestrezza di anteporre la borsa. «Allo stesso modo se mettete vino nuovo in otri vecchi perdete l’uno e gli altri perché il vino nuovo, fermentando, sfonda gli otri vecchi, già logori». L’interpretazione canonica della parabola sostiene che non bisogna mettere nuovi contenuti nella vecchia legge; il nuovo verbo portato da Gesù non può essere contenuto nella vecchia legge ebraica. La possibilità dell’abiezione La parabola può essere illustrativa del limite critico terminale dell’analisi. Il processo psicanalitico porta il soggetto al punto in cui è in grado di ripetere la scelta. Ciò non vuol dire che il soggetto debba sovvertire la scelta forzata, ma semplicemente che può ripeterla senza ignorare la verità in essa sottesa. Si presenta così la possibilità di invertire la funzione del sintomo svuotato di godimento nella nuova funzione della fantasia. Ma non è esclusa l’eventualità contemplata da Freud, sotto il nome di reazione terapeutica negativa, che il soggetto indietreggi di fronte al passo che deve compiere, preferendo riempire di vino nuovo gli otri vecchi, ovvero mantenendo la vecchia funzione del sintomo, riempiendola di nuovi contenuti fantasmatici. Si realizza così, anziché la possibilità della sublimazione, il vicolo cieco dell’abiezione dove il soggetto, perdendo la forma pur di non privarsi del contenuto, avvilisce la propria esistenza a nudo sostegno di un rapporto che non esiste.
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Febbraio 2025
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