Gschnas - Ballo in maschera Marco Focchi Il problema del cambiamento in psicoanalisi si può affrontare da due versanti: quello dell’etica e quello della tecnica. L’etica della psicoanalisi è il capitolo che riguarda gli obiettivi su cui orientare la clinica. Il problema della tecnica è più classico, perché agli inizi il problema dell’obiettivo in realtà non si poneva. Nata come pratica terapeutica la psicoanalisi doveva semplicemente guarire il soggetto dal disturbo che lo assillava. Guarire lo sanno tutti cosa vuol dire quando vanno a consultare il medico: il corpo soffre, bisogna restituirgli la salute, non c’è da farci sopra una grande filosofia. Quando si va a consultare lo psicoanalista cosa gli si può domandare? Generalmente la stessa cosa: liberaci dal male. Il problema è che siamo in un campo in cui è decisamente più complicato stabilire cosa è male e cosa è bene. Così, per noi, dietro la clinica, dietro la tecnica, dietro l’esigenza di staccarsi dalla presa dolorosa del sintomo, si profila il terreno dell’etica, che è quello delle decisioni. Bisogna stabilire cosa è bene per un soggetto, e non lo sappiamo già prima, perché la salute, intesa come modello di uno stato ottimale a cui rifarsi, è qualcosa che nel nostro campo non esiste. Non esiste almeno se pensiamo le cose fino in fondo. Perché in realtà cosa succede quando un paziente è liberato dal sintomo? Forse solo per questo dovremmo dire che ha recuperato la salute? È un’idea che non sarebbe ammissibile neppure in medicina: bisogna andare alle cause, non parliamo di pratiche empiriche, ma di discipline con una loro razionalità. L’evento pulsionale
Naturalmente l’etiologia clinica è un problema da studiare caso per caso; anche l’etica, in psicoanalisi, è un problema del particolare, e non aderisce all’universalità di una norma che debba andare bene per tutti. Cominciamo però ad accumulare troppe negazioni: non c’è un’idea preliminare di salute, non abbiamo una normalità generale da proporre, e se consideriamo il problema nello specifico non possiamo neppure dire che deve essere lo psicoanalista a proporre al paziente quel che considera bene per lui, giacché in ultima istanza, non lo sa. Qualcosa di positivo dovremo purtuttavia sapere! Ebbene, sappiamo che l’esistenza soggettiva nasce da una rottura della normalità di quel che c’è: questa rottura è ciò che ho chiamato evento pulsionale. Quel che c’è è l’animale, e sappiamo che l’essere umano può non uscire affatto dalla sua condizione animale se non si trova in un ambiente linguistico che lo umanizzi: il bambino dell’Aveyron seguito dal dottor Itard è solo il più noto dei bambini selvaggi che assumono l’impronta etologica della specie in cui sono allevati. Questa riflessione dovrebbe almeno suggerire che, per quanto ricco e variato sia il nostro codice genetico, la condizione umana non è scritta in esso, il soggetto non si evolve naturalmente dalle potenzialità del genoma. Il trauma è inaggirabile L’evento pulsionale segna dunque una discontinuità che è la premessa necessaria della costituzione soggettiva. Ma al tempo stesso produce un disequilibrio che è la fonte di ogni possibile patologia nell’essere parlante. I sintomi, le costruzioni di scenari perversi, i deliri, sono tutti tentativi di compensare questo disequilibrio iniziale. Sono, in altri termini, modi di guarire, anche se, naturalmente, non vantaggiosi. Tanto che, sebbene stabilizzino la struttura soggettiva, lo fanno in maniera così poco soddisfacente da lasciare aperta la via per l’intervento correttivo della psicoanalisi. Un conto però è correggere una situazione per riportarla a un canone riconosciuto. Per esempio la salute in senso medico può riferirsi allo stato precedente alla caduta nella malattia per tentare di ristabilirlo. Ma nella psicoanalisi? Il sintomo blocca una situazione scompensatasi con l’evento pulsionale. Cosa dovremmo fare? Riportare il soggetto alla sua beata ottusità animale? Curarlo dalla malattia di essere uomo o donna? Si vede già che per noi le cose sono più complesse. L’etica in psicoanalisi non ha un canone universale perché far risalire il soggetto al di qua del suo particolare significherebbe semplicemente, se fosse mai possibile, restituirlo all’innocenza ferina dello stato di natura. Ciò mostra il limite di orientamenti psicoanalitici, come quello di Ferenczi o di Alexander, che vedono nel ristabilire l’utopia di uno stato pretraumatico l’obiettivo ultimo della cura psicoanalitica. Nella condizione soggettiva il trauma, non inteso come episodio contingente della realtà, ma come punto strutturale dell’inizio, è una condizione reale che non può essere aggirata. L’evento pulsionale è dunque un reale insopportabile, che tutte le forme di psicopatologia conosciute tentano di medicare. Ma prima ancora è indispensabile per il soggetto drammatizzarlo: si ha così il repertorio dei fantasmi originari, si hanno gli intrecci del romanzo familiare, l’inesauribile affabulazione dell’Edipo. La dimensione mitica e narrativa mette in forma scenica la temporalità inenarrabile dell’evento, produce lo sforzo di dare senso alla rottura in cui sorge muto il punto d’inizio. Tutto il senso che siamo in grado di far nascere con l’interpretazione nell’esperienza psicoanalitica viene delle premesse poste dal fantasma, e a esso si riconduce. L’interpretazione, che per un filone del pensiero analitico vale come strumento esclusivo nella conduzione della cura, trova in questo la propria forza e il proprio limite. La forza perché asseconda la china della metafora paterna, che è di dare un senso fallico alla mancanza. Ne risulta una chiave di lettura potente, che apre sul pansessualismo freudiano: dovremmo piuttosto chiamarlo panfallicismo. L’interpretazione può rivelare il senso, anche se può fare solo questo, e il senso è quello fallico indotto dalla metafora paterna. È quindi naturale che dovunque nel suo lavoro lo psicoanalista sia in grado di leggere un senso fallico. L’epica del divieto Alla potenza della chiave di lettura corrisponde un’impotenza sul piano degli effetti: l’interpretazione asseconda in fondo la china dell’inconscio, che è di dare senso all’evento, ma per questa via si trova nella stessa antinomia del desiderio, la cui formula essenziale è: voglio proprio ciò che non voglio. C’è di mezzo una negazione, che la narrazione edipica fa apparire come divieto attribuendolo al padre. L’inattingibilità del soddisfacimento pulsionale si rappresenta sul piano edipico come proibizione dell’incesto, e viene fatta dipendere dalla personale volontà del padre che ne promulga la legge. Si configurano così i grandi miti freudiani del totemismo e dell’orda, ma anche per esempio il mito della cacciata dal paradiso terrestre: è Dio in persona a proibire il godimento della mela. L’epica del divieto alimenta la rivendicazione, perché l’idea di fondo è che se un oggetto mi è proibito è perché ne vuol godere l’Altro; questo vale sia per il padre totemico che gode di tutte le donne sia per il Dio biblico che gode di tutte le mele: ognuno ha i suoi gusti. I caratteri essenziali della chiave di lettura edipica sono comunque: a) il divieto ha un autore, b) è lui a godere di ciò di cui vengo privato, c) la mancanza che ne deriva ha un senso fallico. L’Edipo, nel momento stesso in cui dà senso alla rottura dell’evento, la relativizza in racconto legato a determinate condizioni culturali che, per quanto estese siano, non potranno mai essere universali. Le polemiche tra Jones e Malinowski andrebbero rilette in questa chiave. Il problema è piuttosto che la rottura dell’evento costituisce la dimensione temporale come supplementare rispetto al piano biologico, ed è il motivo per cui non è sostenibile una teoria meramente biologica delle pulsioni come quella promossa da Hartmann dagli anni Trenta. Al di là dell’Edipo Questo ci porta alle riflessioni più essenziali su cosa determina il mutamento soggettivo nella psicoanalisi. L’orientamento classico era che il cambiamento derivasse dal fatto di rendere conscio l’inconscio, ed era questa la virtù dell’interpretazione. Anche il problema delle resistenze veniva in fondo inglobato in una dimensione conoscitiva. Il contrasto tra l’io e la pulsione implicava che l’interpretazione portasse alla coscienza le esigenze pulsionali che l’io voleva allontanare e riportare le pulsioni sotto il controllo razionale dell’io avrebbe avuto un effetto di pacificazione. Questo naturalmente resta valido: le difficoltà nevrotiche nascono dal conflitto tra la dimensione narcisistica in cui si costituisce l’io e quella pulsionale. La conduzione della cura potrebbe essere messa integralmente sotto il segno dell’interpretazione se tutto fosse riducibile all’Edipo e alla rappresentabilità narrativa che consente. In realtà le cose non stanno così e il pessimismo freudiano degli ultimi anni deriva dal constatare l’impossibilità di mettere l’eccesso pulsionale sotto il controllo dell’io. È il problema famoso del fattore quantitativo, che per noi si formula così: la rottura dell’evento produce un’eccesso che non è possibile sottoporre al regime della rappresentazione e che si sottrae alla presa del senso. In altri termini: c’è una disgiunzione tra la verità collegata all’evento e il senso linguisticamente definibile. È il motivo per cui, per quanto avanti possa spingere la propria operazione, l’interpretazione si trova purtuttavia sempre negli inestricabili labirinti del desiderio e della insoddisfazione essenziale. Il desiderio corre sul binario edipico, è il fatto di rivolgersi all’evento sulla base della sua negazione. Bisogna allora considerare una modalità d’intervento in analisi, accanto all’interpretazione, in grado di far presa sull’evento attraverso la sua affermazione. La narrazione verte necessariamente sull’evento come negato. Per farne il racconto deve comunque partire dall’epos, una parola che dicendo le origini nomina l’evento e non c’è denominazione che non sia anche negazione, presa di distanza, evocazione di ciò che è stato e con ciò stesso presentazione della sua assenza. Affermare l’evento cosa può allora voler dire se deve significare qualcosa di diverso da nominarlo? Vuol dire accordarsi alle sue conseguenze. Qui dobbiamo fare qualche valutazione piuttosto sofisticata sulla temporalità in gioco. Nominare l’evento, cioè assegnargli una designazione, qualunque essa sia, attingendola dalla disponibiltà della lingua, o dalla sua plasticità, significa fare una metafora, produrre senso, ha un effetto creativo, ma sospinge l’evento nell’irraggiungibile “già stato” del mito. Come affermarlo allora senza incorrere nella negazione implicita in ogni denominazione? Non nominarlo può essere come ignorarlo, fare come non sia stato nulla, è la strategia dell’ossessivo. Nominarlo può significare sottrarsi alle sue conseguenze, come fa l’isterico. L’unica possibilità è allora scommettervi, perché solo così, agendo sulle sue conseguenze, sarà stato. L’anomìa dell’evento Vediamo allora cosa implica l’etica della psicoanalisi, cioè una prassi che non si riduce al pragmatismo dove la verità deve appiattirsi sul successo. Per un verso non si tratta di espellere l’eccedenza, che sarebbe la via catartica. Questa risente ancora della teoria mesmerica del tappo: si tratta di farlo saltare perché il fluido del magnetismo animale possa scorrere liberamente. Eco di questa concezione si trovano ancora nel Freud maturo, con la nozione di ingorgo libidico. Un’idea di guarigione formulata su queste basi – una versione moderna si trova per esempio nella terapia dell’urlo primario – presuppongono che l’evento possa diluirsi nella normalità dell’essere. Nello stesso modo l’idea della guarigione fondata sull’adattamento alla realtà implica, se non di eliminare l’evento, almeno di metterlo sotto il controllo regolato delle istanze che della realtà sono complici per ovviarne le conseguenze. La via catartica è quella espulsiva, quella egopsicologica è la via apparentemente democratica dell’integrazione. Sono tutte strade che portano alla normalità dell’Uno. C’è una via diversa? Sì, è quella che si collega all’anomìa dell’evento. Qualsiasi terapia fondata sull’Edipo ha la sola possibilità di accordare la nevrosi alla legalità paterna, il che vuol dire regolare l’antinomia del desiderio in base ad assiomi limitativi. La normalità sarebbe che Adamo ed Eva non rubassero la mela, e avendola rubata meglio di tutto sarebbe se la restituissero. Collegarsi all’anomìa dell’evento significa invece intervenire per produrre una verità separata dal senso perpetuando la linea di frattura della legalità. Questo non va né nel senso dell’espulsione, cioè fare che non sia successo nulla, eliminarne gli effetti rientrando nella routine pretraumatica, né in quello dell’integrazione, dando un volto presentabile al carattere impresentabile dell’evento. Collegarsi all’anomìa dell’evento significa attingere dal suo vuoto il materiale per farne circolare gli effetti, in altre parole significa metterlo all’attivo, trasformare il carattere inerte dell’ostacolo in spinta produttiva. Non bisogna pensare a riacquistare ciò che è perduto, un oggetto, un equilibrio, una coerenza, ma far leva sulla perdita anziché cercare risarcimento. Ogni intervento che non sia soltanto semantico tocca il punto d’inversione tra il “già stato” e il “mai stato” ed è questa, più di qualsiasi insight, la risorsa del cambiamento in psicoanalisi. Come si realizza in pratica quest’inversione? Offrendo al soggetto, nella traslazione, una diversa risposta dell’Altro che rovesci quella dell’Altro primordiale patogeno. Si tratta cioè di spezzare il cerchio ipnotico della ripetizione, dove il nevrotico cerca e provoca le risposte che ha già avuto, e che sono per lui come la sola risposta possibile. Si tratta insomma di produrre un effetto di novità, di far affiorare un elemento non codificato dalla ripetizione attingendolo dal vuoto intorno a cui essa gira. È importante che l’intervento faccia leva sul vuoto delineato dalla ripetizione perché solo così si esce dai vicoli ciechi della suggestione: occorre intervenire nel punto di incompletezza. Dall’arte dell’ascolto a quella di farsi sordi Il problema è come. Precisiamo che non riguarda una questione tecnica, ma che è forse di uno dei problemi più profondi per capire le risorse dell’intervento psicoanalitico. Si parla in genere dell’ascolto che l’analista presta al paziente, della sua precisione, della sua finezza nel penetrare le sfumature impercettibili ma essenziali per la verità del soggetto. Accanto a questo dell’analista si valorizza la comunicativa, che gli consente di trovare i modi più opportuni di far cogliere al paziente quel che cerca di sfuggire. Possiamo dire che sono questi i problemi tecnici, anche se in effetti descrivono l’arte quasi impalpabile dell’interpretazione. Intervenire nel punto d’evento non richiede sottigliezze, né studio di dettagli, né ascolto: occorre piuttosto un’impenetrabile sordità. L’arte della comunicazione deve trasformarsi nella capacità di far sentire una volontà muta. Bisogna lasciare che la ripetizione arrivi al punto d’evento, dove di solito si ritrae per riprendere il proprio giro, dove per l’analista è preparato il posto dell’Altro patogeno. Qui il soggetto gioca la sua partita attirando nel gioco di seduzione o di rifiuto che da sempre ha costituito la trama della sua vita. L’analista è atteso qui dove il soggetto gli lascia, come a qualunque altro partner, solo la possibilità di entrare nel gioco o di ritirarsi, e la vera risposta analitica è non darsene per inteso. Siamo agli antipodi dell’intervento empatico, della risposta tranquillizzante, del rassicurare dicendo che non è successo niente. A sostenere che non è successo niente basta già la ripetizione, che nelle sue strette lascia due possibilità di negare l’evento: assumere il ruolo dell’Altro traumatico o andarsene. In un caso o nell’altro nulla sarà accaduto. Ma se l’analista, senza entrare nel gioco, resta e traversa la rottura dell’evento rendendosene parte, è allora questo a mettere in circolazione nel soggetto una verità, fatta del materiale della pulsione, che non può più essere ignorata nel campo rappresentativo del narcisismo. Gschnas La trasformazione soggettiva deriva dal fatto che diventa inevitabile registrare l’appartenenza di una componente non presentata sotto nessun marchio identificativo, dove il problema non è più dominarla o espellerla ma farne qualcosa. Come? Una via può essere il principio del Gschnas. Freud lo descrive in una divertente pagina dell’Interpretazione dei sogni, parlando degli svaghi con cui gli artisti a volte rallegravano le serate viennesi: utilizzando materiale comune, strano o vile confezionavano oggetti di raro e prezioso aspetto; una pentola diventava così un’armatura, scopini si trasformavano in pennacchi e pochi stracci in ricchi drappeggi. La stessa arte Freud l’attribuisce agli isterici, che con il materiale più innocente della vita creano le più ricche e sfrenate fantasie di seduzione d’amore e di morte: è il collegamento negativo con l’evento operato attraverso il desiderio. L’uscita dalla nevrosi non implica il superamento di quest’arte, bensì di svilupparne la logica al di qua della dimensione semantica del fantasma, dove il collegamento positivo con l’evento operato dall’intervento psicoanalitico e la perseveranza nella sua connessione permettono di costruire una verità che riapre la possibilità del nuovo lavorando su materiale appartenente al senso comune. In altri termini, se la legge della ripetizione ribadisce la più che ragionevole massima nihil sub sole novi, si tratta di non prestarle ascolto per realizzare la possibilità dell’impossibile. Il compito dello psicoanalista è semplicemente questo, ma non è niente meno che questo.
1 Comment
Graciela Martellanz
14/10/2025 10:16:44 pm
Evento pulsional-trauma-sintoma.
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