Intervento alla tavola rotonda tenutasi il 16 novembre 2020 su piattaforma Zoom in occasione della presentazione del nuovo numero della rivista Enlaces Marco Focchi Ringrazio la redazione di Enlaces per l’invito rivoltomi a presentare questa bella rivista. È un piacere essere con voi a Buenos Aires questa sera, pur restando a Milano. Sono i vantaggi della piattaforma Zoom. Liliana Mauas mi ha proposto di parlare della sezione della rivista dedicata alla pandemia. La prima cosa da dire a questo proposito è che la pandemia ha completamente investito le nostre vite negli ultimi mesi, e la psicoanalisi non poteva restare fuori da questo straordinario tsunami. Dappertutto la preoccupazione del contagio ha fatto scoprire le virtù del telelavoro e, nel momento della serrata di marzo e aprile, tempo della prima ondata, anche gli psicoanalisti hanno trasferito le loro attività su Skype, per la clinica, e sulle diverse piattaforme internet per quanto riguarda gli insegnamenti. Su questo c’è stato un dibattito molto interessante, con posizioni diversificate, dove il quesito maggiore è stato: è possibile fare una seduta psicoanalitica su internet?
I punti di vista che si sono espressi sono i più disparati, e non è il caso di riprenderli questa sera. Sta di fatto però che molti pazienti, iniziando ora, chiedono loro stessi, da subito, il contatto via internet. Come ho detto non è di questo però che vogliamo discutere, anche perché è un tema che ha già avuto ampio spazio di dibattito. Consideriamo invece i temi presentati dalla rivista Enlaces sulla pandemia, che sono ampi e ricchi di spunti. Abbiamo innanzi tutto la testimonianza di Monica Torres, che ci mostra l’impossibilità di rifugiarsi in uno spazio di finzione di fronte all’esplosione della pandemia, diversamente da quel che accadde vent’anni fa con la distruzione delle torri gemelle, dove tutto sembrava un film, le parvenze narrative sembravano avvolgere e dar forma a qualcosa di inconcepibile. Sul virus invece non ci sono immagini come quelle che vedevamo in televisione l’11 settembre del 2001. Ci sono alcune immagini che circolano su internet, ma sono immagini false, costruite a computer. Abbiamo però, sul piano narrativo, lo splendido racconto di Camus, La peste, che credo tutti siamo andati a rileggere in questi ultimi mesi. È un racconto che mette in tensione un elemento invisibile sotteso al contagio: il dolore della separazione dagli affetti, qualcosa che tutti noi sentiamo con forza nel momento in cui gli abituali luoghi di socializzazione sono chiusi o difficili da frequentare, in cui i contatti con gli amici sono rarefatti, e anche in cui gli affetti famigliari e i conviventi sono messi a distanza. Su questo senso della separazione insiste il testo di Joaquin Caretti, commentando una foto scattata a Madrid nel 1940. È la foto che chiama del “bambino nascosto”, un bambino separato dal gruppo dei compagni di scuola che prima di entrare in classe cantano insieme Cara al sol, inno della Falange franchista. Se lì è mostrata la solitudine di chi non si unisce al coro, il momento attuale ci mostra l’isolamento di una vita che non può più per ora essere corale. Nella prima ondata a marzo e aprile avevamo ricostruito questa coralità cantando dai balconi. Ora tutto questo è svanito in un orizzonte buio, in cui non appaiono vie d’uscita rapide o vicine. Prima dicevamo andrà tutto bene, ora siamo piuttosto silenziosi, perplessi, o forse ammutoliti e disorientati. Eugenia Molina radicalizza poi questo tema della separazione implicando il corpo proprio, e mettendolo sotto la metafora di un bellissimo racconto di Julio Cortazar, Casa tomada, dove i protagonisti abbandonano un po’ alla volta gli spazi della loro casa respinti da invasori sconosciuti. Analogamente l’invasore del nostro corpo, il virus, ci costringe a ritirarci da ogni forma di contatto. La stranezza di non poterci spostare inoltre, e il timore delle malattie destabilizzano anche la territorializzazione del nostro stesso corpo, e ci mostrano come lo stile di vita riguardi non solo la relazione con i nostri simili, la relazione speculare, ma anche la relazione con il godimento, il modo in cui viviamo la pulsione. Il quesito ora è: cosa ci mostra la clinica psicoanalitica della pandemia? E quale può essere la posizione della psicoanalisi in questo momento? È la questione che affronta Ana Viganó mostrando, al di là della clinica, quale deve essere la posizione della psicoanalisi nell’enunciazione sociale. Nel momento in cui gli esperti si pronunciano su tutto e sul contrario di tutto, si tratta di preservare uno spazio estraneo alle risposte o alle soluzioni prêt-à-porter, uno spazio di silenzio necessario perché la parola analizzante, o la parola sofferente, possa risuonare in quanto vi è di più proprio e di più estraneo: il sintomo nel suo funzionamento e l’impasse che lo blocca. Éric Laurent porta poi la nostra riflessione sull’uso dei modelli nella scienza e sulla loro distanza rispetto al reale. Il modello dovrebbe essere una via d’accesso al reale ma secondo Lacan, il modello è piuttosto un modo di ricorrere all’immaginario per farsi un’idea del reale. E in effetti abbiamo visto in questo momento di pandemia la difficoltà incontrata a tutti i livelli di farsi un’idea di quello a cui ci trovavamo di fronte, come se in qualche modo il motore logico della comprensione si fosse imballato sul piano della scienza, sul piano della filosofia, sul piano della politica. Per quanto riguarda la scienza abbiamo visto gli esperti contraddirsi gli uni con gli altri nei mezzi di comunicazione di massa, sui giornali e sulle televisioni, provocando nel pubblico una caduta di credibilità nei confronti della scienza. Quel che si è visto però è piuttosto lo stato reale della scienza. Come spiega bene Bruno Latour, la scienza ha due facce: quella sulla scena, in cui ci presenta i prodotti finiti, fonte di tutte le certezze, fonte della grande credibilità e autorità sociale che ha acquisito nella nostra epoca. Poi c’è quel che succede dietro la scena: le ipotesi che si contraddicono, il confronto e l’antagonismo fra gli scienziati, i processi di costruzione dei concetti e degli oggetti con tutti i loro vacillamenti e tutte le loro oscillazioni. Accanto a questo ci sono i filosofi. Molti si sono esposti al tentativo di dare una lettura dell’attuale pandemia, e quel che abbiamo visto è che anche la filosofia si è trovata con i motori concettuali che giravano a vuoto. Invece di cercare di capire la novità della situazione in cui ci trovavamo, gli interpreti hanno usato vecchie formule, tratte da contesti diversi, applicandole al momento che stiamo vivendo. Sono molti i filosofi che si sono espressi, ma uno degli infortuni maggiori è stato quello di un pensatore tutt’altro che di secondo piano come Giorgio Agamben, che ha interpretato la gestione della pandemia attraverso lo schema dello stato d’eccezione, uno schema che appartiene a mondi e a storie completamente diverse, che lo ha portato a sfiorare quasi una sorta di negazionismo. C’è poi la politica che, posta di fronte a una situazione eccezionale, ha reagito come ha potuto, mostrando contrasti tra i poteri i centrali e i poteri locali. Se in Lombardia c’è stato un disastro che per dimensione è il secondo dopo la Cina, è perché i responsabili della regione, facendo prevalere le pressioni degli industriali, hanno ritardato la chiusura delle aree di diffusione del virus traducendo i focolai in ecatombe. Sia la scienza, sia le chiavi di lettura del pensiero, sia l’azione politica si sono quindi trovati nell’impossibilità di assorbire il contraccolpo del granello di sabbia che ha bloccato tutti i nostri ingranaggi sociali. Noi, come psicoanalisti, abbiamo visto i riflessi del blocco del funzionamento sociale nella clinica, nella testimonianza dei nostri pazienti. Appare, leggendo anche quanto hanno scritto i nostri colleghi, che ci siamo trovati davanti alle reazioni più svariate, dalle esplosioni di angoscia, alle chiusure claustrofiliche. Nei nostri programmi Zelig di psicoanalisi e politica, questo momento diventa prezioso per capire l’interazione tra i movimenti dell’inconscio e quelli sociali. Ma soprattutto la duttilità che la nostra pratica ha mostrato in questo frangente ci aiuta ad essere meno dogmatici, a non fissarci su una supposta essenza della psicoanalisi, a vederla nel tessuto vivo della comunità in cui si esercita. Se siamo meglio attrezzati di altri per affrontare questo momento è perché esercitiamo una pratica che non procede da teoremi, che è orientata verso le variazioni, verso il mutamento, verso la sorpresa, verso i punti di inciampo del funzionamento, e questo grande inciampo, amplificato sulla scena sociale, ci prende meno alla sprovvista di altri.
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