![]() Conferenza tenuta il 29 novembre a Milano presso l'Istituto freudiano, per la rassegna I venerdì milanesi di psicoanalisi e politica Laurent Dupont Che cosa vuol dire “essere se stessi”? Dire “io sono” è già un enigma. Per esempio, dopo gli attentati di Charlie Hebdo in Francia, milioni di persone sono scesi in strada con i cartelli: Io sono Charlie. Erano davvero «Charlie»? In che cosa si sentivano Charlie? Prima, c’era stato il famoso: «Ich bin ein Berliner » pronunciato da John Fitzgerald Kennedy a Berlino durante la guerra fredda. Ovviamente, lui non era né tedesco né berlinese. Che cosa voleva dire, che cosa intendeva con Ich bin ein Berliner ? C’è un effetto iceberg: “io sono” non è che la punta dell’iceberg. Quanto valgono quindi questi «io sono»? Cosa siamo veramente? Io sono non è una certezza. È una parola, un significante che ci rappresenta in un dato momento. Ciò che Lacan ha definito con: il significante rappresenta il soggetto per un altro significante. E che lui scrive: S1–S2. Per esempio, per voi questa sera, forse il significante che mi rappresenta è psicoanalista? E forse per questo siete qui. Oppure il titolo del mio intervento: Sulla certezza di essere se stessi che è allora ciò che mi rappresenta per il significante che voi voi stessi siete. E per me, il significante che vi rappresenta è il pubblico? Gli ascoltatori? Oppure ancora altri significanti che potrebbero venirmi in mente: SLP, uomini, donne, milanesi, tifosi del Milan o dell’Inter, o nessuno dei due, e così via Vedete, i significanti che vengono a rappresentarci per un altro significante sono mutevoli, cambiano, dipendono non solo da colui che è rappresentato, ma anche da colui che riceve la rappresentazione. Se un uomo con la maglia dell'Inter incontra un altro uomo con la maglia dell'Inter, si riconoscono anche se non si conoscono, hanno un a-priori positivo anche se non si sono mai visti. Ma se qualcuno con la maglia dell'Inter incontra un tifoso del Milan, non è la stessa cosa. Non è affatto la stessa cosa. Il significante che ci rappresenta influenza le nostre convinzioni, le nostre percezioni, il nostro rapporto con gli altri e il modo in cui gli altri ci vedono.
Ecco perché «Io sono», queste semplici parole, sono per la psicoanalisi un punto interrogativo. Per esempio, “io sono Laurent Dupont”, dice qualcosa di me? Nelle scuole che ho frequentato era pieno di Laurent e di Dupont. Anche la carta d’identità, che dovrebbe rivelare la vostra identità, con l’altezza, il sesso o il genere, l’età, il colore degli occhi, sposati o meno, con figli o meno. A parte lo stato civile o i dati per la polizia, questo dice molto poco su chi siete. E se io aggiungo «psicoanalista»: questo ci dirà molto di più? Non appena aggiungiamo un significante, vediamo che a sua volta implica un altro significante che tenta di perfezionarlo, di dargli un significato. È ciò che Lacan chiama la catena significante : S1-S2-S3-S4… ce ne vuole sempre uno in più, e quando la catena si srotola, per esempio in analisi, sembra non finire mai. L'interpretazione è necessaria per effettuare tagli, estrazioni, punteggiatura, punti, virgole, punti esclamativi e punti interrogativi in modo che il soggetto si fermi e dia una retroazione. Prendiamo per esempio l’enunciato: “Io sono Marco Focchi”. L’analista può intervenire dicendo: “Da dove viene il tuo nome?”. Ciò che per il soggetto era quindi evidente prende un punto interrogativo, deve pensarsi retroattivamente, e il nome di\\ famiglia diventa un iceberg. La stessa cosa avviene con un sintomo. Il caso di Freud della fobia dei cavalli del piccolo Hans ci da S1, che è la fobia dei cavalli. Questo significante, in un determinato momento t, rappresenta Hans per i suoi genitori come anche per Freud, che è l'analista del padre di Hans. Un S1, è sia un nome, per esempio “fobia dei cavalli”, un nome che vi rappresenta, e sia un enigma: che cosa vuol dire fobia dei cavalli? Innalzare la cosa alla dignità del significante, alla dignità dell'enigma, è il lavoro etico della psicoanalisi. Innalzare le cose alla dignità dell'iceberg. La psicoanalisi ama gli iceberg. Vediamo che se l’«io sono» deve permetterci di dire qualcosa, bisogna allora andare ancora più lontano, affinare e affinare sempre di più, fino a esplorare ogni minima parte dell’ inconscio per poter dire finalmente: «Io sono questo». E tuttavia, ne siamo sicuri? Bisognerà crederci. Credere non è essere sicuri. Se qualcuno vi chiede la strada e voi dite: «Credo che sia di là», non siete sicuri. Credere, non è essere sicuri. Essere certi, avere la certezza, è un'altra cosa. Credere in Dio implica che non siamo sicuri, ed è per questo che per credere in Dio occorre la fede. Essere certi dell'esistenza di Dio non è già più credere o avere fede, è sovrapporre S1 e S2, è eliminare la domanda, il pensiero, il dubbio, l'interrogazione, il dibattito, la conversazione, lo studio dei testi. Quando si è certi, quando si ha la certezza, il cerchio si chiude su se stesso e si perde irrimediabilmente la possibilità di produrre Altro. Come non vedere, che l'ascesa del populismo e la banalizzazione dei discorsi del radicalismo di chi non la pensa come me, porta con sé una crescita della certezza? Certezza contro enigma, contro complessità, contro dibattito. Che si tratti di politica o di sport, ma anche, nel legame sociale, del cosiddetto movimento Woke – che considera come estrema destra chiunque non sia d’accordo – dei movimenti di destra radicale o di sinistra radicale, che rifiutano il minimo dibattito, ogni volta, la certezza di avere ragione contro l'Altro porta un impoverimento del discorso. Nel Seminario XIX Lacan sostiene che ogni gruppo ha bisogno di un significante per rappresentarsi nell'Altro, ma che questo significante della rappresentazione, per reggersi in un mondo in continua evoluzione, ha bisogno della certezza di sé. «Io sono questo» non può più essere messo in discussione, perché indica la fragilità del annodamento S1-S2., Lacan sostiene così che ci sarà un aumento di gruppi, di comunità rappresentate ciascuna da un S1 di certezza. La teoria degli insiemi ci aiuta a capire questo meccanismo: perché si formi un insieme, gli elementi dell'insieme devono avere una caratteristica comune che dà il nome all'insieme ma, ala tempo stesso, tutti quelli che non hanno questa caratteristica sono esclusi dall'insieme. L'esclusione è la fase che porta a ritenere che solo gli elementi dell’insieme possano parlare di ciò che accade nell’insieme stesso. Questo è ciò che Lacan ha definito, nel 1972, come l'inesorabile ascesa del comunitarismo e quindi della segregazione e del razzismo, dichiarando che non avremmo smesso di sentirne parlare. Ci siamo. A volte è molto difficile essere sicuri di essere se stessi, identici a se stessi. Il fatto che ripetiamo gli stessi errori, o che non riusciamo a impedirci di fare questo o quello, che abbiamo sintomi che non capiamo, o pensieri che ci disturbano, o fantasmi, tutto questo dimostra che in ogni soggetto c'è uno scarto tra sé e sé, tra l’ «Io» che pensa di essere e l'io che è in un dato momento t. È questo che gli psicoanalisti chiamano inconscio, è l'esplorazione del divario tra l'Io che pensa e l'Io che è. «Io sono», non va da sé. Diciamo allora che, strutturalmente parlando, è piuttosto dubbio l’«Io sono». Bisogna crederci. Se ci si pensa, e non abbiamo dovuto aspettare la psicoanalisi per dirlo, la vita non ha senso, la biologia non ha senso, la morte non ha senso. Gli esseri umani, in quanto tali, non hanno senso. Forse è per questo che senza tregua producono senso. Potremmo indicare da un lato S1. come la vita, ma cosa vuoi dire la vita? E dall’altro tutte le produzioni umane che tentano di dare senso come: S2. Gli esseri umani cercano di dare un senso alla propria vita, di poter dire: io sono. Per farlo, hanno inventato uno strumento formidabile: il linguaggio, e ovviamente la parola. È questo che ha portato Lacan a dire che «la parola, naturalmente, si definisce come l'unico luogo in cui l'essere ha un senso1». Cognome, nome, altezza, età, psicanalista, idraulico, elettricista, imperatore sono significanti, e i significanti sono parole. Gli animali non si interrogano a priori sul senso della loro esistenza, perché per loro tutto funziona. Tranne quando l'uomo si intromette nell'esistenza degli animali, allora le cose si complicano un po', ma per il resto gli animali sanno quando devono mangiare, bere, riprodursi, sanno che devono cantare in un certo modo per attirare i maschi o le femmine, emanare un certo odore. È automatico, gli animali sanno cosa sono, il loro «io sono» è omotetico all’io che «è». Non hanno bisogno del linguaggio, anche se molti di loro ne dispongono. Potremmo dire che gli animali non sono, esistono. Per gli esseri umani, l'incontro tra i sessi non è scritto, non c'è nulla che dica come essere un uomo per una donna e viceversa, o come essere un uomo per un uomo o una donna per una donna. Eppure, da un punto di vista puramente biologico, ci sono due sessi, maschio e femmina, ma non c'è nulla che dica cosa sono gli uomini e le donne. C'è una disgiunzione radicale tra il corpo che abbiamo e il linguaggio che dice che cosa siamo. È questo che porta Lacan a dire che in natura ci sono solo due sessi, ma che dal punto di vista della sessualità l'uomo e la donna sono solo significanti (Seminario XIX). È ciò che sostiene nel suo aforisma: non c'è relazione sessuale. L'uomo e la donna sono solo significanti che vengono a rappresentare il soggetto per un altro significante, e aggiunge che potrebbero essercene altri. In quanto tali, come significanti, uomini e donne sono solo parole. Hanno conseguenze, ma sono solo parole. Come sappiamo, con il risveglio della sessualità e con la pubertà, per esempio, non è facile sapere come identificarsi con il proprio sesso biologico, come gestire un corpo che sta subendo una metamorfosi. Oggi il movimento LGBTQIA+ offre già molteplici identificazioni supplementari. Come si può vedere, lo scollamento tra corpo e linguaggio fa sì che il soggetto si perda nel suo «io sono». Non è così semplice dire sono un uomo o sono una donna. Dipende dall'identificazione, dall'attrazione e dalla percezione, dipende anche dall'ambiente educativo e culturale, dipende anche dalla percezione del proprio corpo. Le scimmie o i leoni si pongono meno domande. Bene, per la psicoanalisi, questo divario tra il corpo e il linguaggio, questa impossibilità di dire il corpo con certezza, questo dubbio, questa convinzione, è un'opportunità. È la possibilità, semplicemente attraverso un'analisi, di esplorare questi dubbi, queste convinzioni, e di trovare il modo di essere un uomo o una donna o qualcos’altro, in modo singolare per ogni persona. Prima potevamo dire che a governare l'ordine simbolico era quello che Lacan chiamava il Nome-del-Padre, cioè che il nome veniva da un altro, che veniva a nominare l'essere, il godimento, il rapporto con l'Altro, e questo portava a dire che era la legge simbolica. Oramai il Nome-del-Padre non ha più nulla a che vedere con quello che era ai tempi di Freud, quando l'educazione vittoriana imponeva ai bambini una regola ferrea, con tutte le nevrosi e le psicosi che ne conseguivano. Dagli anni Cinquanta abbiamo assistito alla caduta del padre e all'assunzione per ciascuno di modi di godimento come rivendicazione di soddisfazione. La psicoanalisi non se ne rammarica affatto. Permette questa inventiva, questa pluralizzazione dei nomi che apre un mondo molteplice e non bipolarizzato, un mondo capace di ripensarsi e di non riprodurre vecchi schemi. Dove il Nome-del-Padre veniva dall'Altro e si imponeva come legge nominando la cosa, la posizione egemonica del Nome-del-Padre implicava la contestazione, la possibilità di dubitarne, di metterlo in discussione. Perché veniva dall'Altro. Il fatto che ogni soggetto abbia la possibilità di auto-nominarsi rende più difficile mettere in discussione il significante trovato per rappresentarlo. Nel 1966, Lacan aveva già individuato questa rigidità e il suo accento di certezza: “Ma infine, per dire le cose in modo che risuonino, il punto di partenza dei miei scritti, che lega tutto fino alla fine di questa raccolta, e che in effetti resta una questione profondamente discussa in tutto il percorso, si esprime in questa formula che viene a tutti e che si mantiene, devo dire, con una spiacevole certezza – “Io sono io2”. “Spiacevole certezza” che avvalora – per seguire il nostro filo – come la certezza si opponga all'inconscio, come la certezza cerchi di mettere a tacere l'enigma, per mancanza di divisione o per una fluttuazione nella divisione del soggetto. La certezza è la sovrapposizione dell’enunciato e dell’enunciazione, è il rifiuto di qualsiasi distorsione nella catena significante. Lo vediamo ancora più chiaramente con la nozione di “mentale” usata nello sport, dove la tendenza è che il pensiero e l'azione possano costringere l'inconscio e il corpo, costringere ciò che fallisce, ciò che inciampa. Il senso sarebbe sufficiente, tutto sarebbe riducibile a esso. La certezza è un tentativo di chiudere la divisione (quando è presente), o di aggirare il buco – da questo punto di vista la certezza è «delirante» nel senso di freudiano: “È un tentativo di guarigione3”. “Guarigione” dall'irriducibile divario tra corpo e linguaggio. La contropartita è che dobbiamo rifiutare l'insopportabile enigma che io sono per me stesso. L'inconscio, come luogo di un'altra verità, come motore del transfert e sostegno dell'interpretazione, è minato dalla certezza che rifiuta la divisione soggettiva. La volontà di rafforzare l'io è sempre un attacco all’inconscio – questo è l'errore dei sostenitori dell’ego-psychology come anche delle teorie dell'autodeterminazione. Se questa certezza non è totalmente sovrapponibile alla certezza psicotica che tenta di tappare il buco, è comunque il segno di un significante-padrone che non può svolgere la propria funzione di aggancio. «Io sono io» trova risonanza in un’affermazione: «Sono ciò che dico4 », secondo la formula proposta da Jacues-Alain Miller per nominare le conseguenze di questa rigidità. È una risposta, sia all'assenza del significante-padrone che dà un aggancio al soggetto, sia al fatto che questo significante non è più così padrone, e fluttua. Lacan aggiunge, a proposito di questa certezza, che “è sempre molto pericolosa5». Infatti, rifiutando ogni dialettica, ogni possibilità di dibattito, rifiutando persino l'idea della divisione soggettiva e dell'inconscio, questa certezza è pericolosa in quanto sostiene un discorso che deve perfezionarsi sempre più, nel tentativo di mantenere in piedi un castello di carte. Lo sento, io lo dico, quindi lo sono –, implica una certezza sulla presunta capacità di pensare se stessi come pieni e interi. Certezza di essere se stessi: l’inconscio è messo fuori. Per orientarci in questo momento di “evaporazione del padre6», mi sembra sia necessario attingere alla clinica della psicosi per cogliere la posta in gioco nelle sue conseguenze, e per trovare una bussola nella clinica dell'ironia: «La nostra clinica sarà ironica, cioè fondata sull'inesistenza dell'Altro come difesa dal reale – o sarà un rimaneggiamento della clinica psichiatrica 7 » ha detto J.A.Miller. La questione della certezza è al centro della clinica, ma non più solo come certezza che l'Altro vuole qualcosa da me, perché la certezza di chi sono è ormai ben presente. Queste posizioni sono entrambe risposte a un Altro che non esiste, sia in una volontà di dargli estrema consistenza – al punto, per esempio nella paranoia, di essere certi che voglia qualcosa da noi – sia nel produrre un significante di certezza al posto del significante mancante. Il primo caso, indicato da J.A. Miller come una delle “malattie [...] dell'Altro8», testimonia l’attribuzione, a un Altro completo e onnipotente, della causa di ciò che il soggetto sperimenta, un tentativo di individuare e darsi, attraverso questa certezza, una consistenza soggettiva. Nell’altro caso, quello delle «malattie della mentalità9», l’inesistenza dell’Altro è messa a nudo e produce un vuoto del significante della rappresentazione. «Questo «essere[i] che si avvicina [avvicinano] alla pura parvenza» cerca quindi di incarnarsi in un significante che dà un aggancio alla sua soggettività e, per tenere tutto insieme, aggiunge la certezza nel significante stesso. IN questo caso quel che si prova non ritorna al corpo attraverso la certezza di un Altro completo, ma trova modo di denominarsi nei significanti-padroni dei discorsi che traversano la società: si auto-denomina. I pazienti che incontriamo e che hanno a che fare direttamente con l'inesistenza dell'Altro possono presentarsi come inglobati da questo Altro troppo consistente, o come fluttuanti, in una vacillazione del significante della certezza, o come totalmente sprovvisti di fronte al buco, in mancanza del significante-padrone. Durante la giornata UFORCA del 18 giugno 2022, la cui conversazione è stata pubblicata con il titolo La solution trans11 in seguito alla presentazione di un caso clinico da parte di Nathalie Crame, J.A. Miller osserva: “Scriverei la coppia S1 – S2. Metterei un. Circolato intorno all’S1, è più facile barrarlo, perché questo S1 non c'è più12”. In quanto «significante d’identificazione13», aggiunge J.A. Miller, è necessario tener conto di questo S1. In questo modo, il nome in quanto tale, quello che cerca denominare, può levarsi di torno, può vacillare, persino scomparire. Al soggetto rimane l'enigma radicale del suo «Io sono» che diventa un significante enigmatico, S1 da solo. Questo S1 radicale è in attesa di un significante che lo denomini e lanci o rilanci la produzione della catena significante. Abbiamo quindi due S1; uno che rimanda all'enigma radicale del mio essere-nel-mondo, inscritto nel corpo, e un S1 di denominazione, che consente l’identificazione con il nome. Il Nome-del-Padre è uno di quelli, è un significante-padrone. Se il significante-padrone si è tolto di mezzo o se, a causa della preclusione, non è inscritto, l’essere del soggetto può venir messo di fronte alla necessità di trovare un significante della rappresentazione che fissi il suo essere. «Senza il significante Uno, restano solo degli S2: cerco dei significanti, quindi accanto a S2, scriverò S3, S4, S5, e così via […] Questa pluralizzazione ci dice che c'è qualcosa che non esiste14». Per tenere insieme un significante, in modo che non fluttui, a volte è necessario il chiodo, il fermaglio della certezza. La certezza ha diverse sfumature, e la clinica di oggi ci permette quasi di misurarne i diversi strati. Potremmo, per esempio, concepire un continuum della certezza, a partire da quella incrollabile fino a quella fluttuante (nel caso di permutazioni molteplici S2, S3, S4…), traversando la convinzione, il punto di capitone, o il fermaglio. Si tratta quindi di una clinica del significante che cerca di ovviare al significante-padrone che se n’è andato, una clinica la cui bussola è l'inesistenza dell'Altro e le sue conseguenze. I diversi accenti di certezza vanno allora intesi come tentativi di fissare questo corpo radicalmente Altro e questo “Io sono” che non trova più modo di inscriversi. 1. Lacan J, Joyce le symptôme, Autres écrits, Seuil, p. 565 2. Lacan J., Le Séminaire, livre xiv, La Logique du fantasme, texte établi par J.A. Miller, Paris, 9, 2023, p. 77. 3. Freud S., Cinq Psychanalyses, Paris, PUF, 1997, p. 315 : «Ce que nous prenons pour une production morbide, la formation du délire, est en réalité une tentative de guérison, une reconstruction.» 4. Miller J.A., intervention lors de « Question d’École », École de la Cause freudienne, Paris, 22 janvier 2022, inédit. 5. Lacan J., Le Séminaire, livre xiv, La Logique du fantasme, op. cit., p. 77. 6. Cf. Miller J.-A., « Le père devenu vapeur », Mental, no 48, novembre 2023, p. 1316. Cf. également Lacan J., « Note sur le père », La Cause du désir, no 89, mars 2015, p. 8 : « Je crois qu’à notre époque, la trace, la cicatrice de l’évaporation du père, c’est ce que nous pourrions mettre sous la rubrique et le titre général de la ségrégation. » 7. Miller J.A., « Clinique ironique », La Cause freudienne, no 23, mars 1993, p. 8. 8. Miller J.A., « Enseignements de la présentation de malades », op. cit., p. 301. 9. Ibid. 10. Ibid. 11. Miller J.A. (s/dir.), La Solution trans, Paris, Navarin, 2022. 12. Ibid., p. 123 13. Ibid. 14. Ibid. Traduzione di Micol Martinez
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