Francisco Hernández Diaz Praticamente fin dalle prime riunioni del Cartello, la preoccupazione nel definire il mio possibile tratto divenne evidente, preoccupante, direi oggi. Mi accorsi che non si trattava di elaborare intellettualmente un “tratto leggibile o intelligibile”, così per togliermi d'impaccio proposi quello dell’ "esistenza" che, comunque, faceva parte del nucleo duro della mia preoccupazione storica, in parte conoscendola, in parte subendola, in parte sentendola o notandone inconsciamente l'insistenza in mille modi. Mentre si svolgevano gli incontri e ascoltavo gli altri membri del Cartello durante il lavoro, sono entrato in uno stato d'animo che non era altro che quello di rimanere attento e partecipare ai dibattiti che emergevano dalla lettura del saggio di Francois Regnault, “Dio è inconsistente” (1). Devo dire che per me questo testo si è rivelato una lettura un po' faticosa, anche se interessante per l'ipotesi di analisi e per i riferimenti bibliografici su cui l'autore si basa: da “Psicologia delle masse e analisi dell'Io” di Freud, a “Dio è morto”, Nietzsche letto da Lacan.
All'inizio del nostro lavoro nel Cartello, ho scritto un testo su “I Padri latini e la filosofia”, titolo che corrisponde al capitolo II del libro di Étienne Gilson, “La philosophie au Moyen Age” (2). Per continuare ad avanzare in quella che potremmo definire “l'evoluzione delle idee in Occidente”, mi rifaccio al libro di George Simmel “Philosophie de la modernité”, per collocare i filosofi della modernità che si allontanano o rompono con l'impero di Dio sull'uomo moderno e che porta, secondo Simmel, all'individualismo latino e germanico (3). In effetti, l'individualismo “risale al Rinascimento, che riconosce l'individualità a livello sociale come un valore (...) il Rinascimento inventa l'individualità moderna, rifiutando l'ordine del mondo e della società che il Medioevo aveva accettato, cosicché è il XVIII secolo, e poi il Romanticismo, a fondare l'individualismo moderno (...) Nel Romanticismo – movimento letterario e artistico che si sviluppa nella prima metà del XIX secolo come reazione al razionalismo dei secoli precedenti – ciò che viene valorizzato è l'incomparabile specificità dell'individuo, (...) il cui valore supremo è quello che l'individuo non può condividere con nessun altro la sua personalità originale. (...) Per la personalità dell'individualismo romantico, si tratta di affermare la propria legge individuale (...) Il destino personale di questo individualismo moderno è l'iscrizione dell'esistenza nell’universale” (4). È nel primo romanticismo che si valorizza l'ispirazione e la soggettività dell'artista. Lo stesso George Simmel, dopo un ampio sviluppo sull'avvento della modernità, afferma che “il punto è che bisogna dire che la cultura europea ha contribuito al concetto di individuo come equazione tra il sé e il mondo, sia nel mondo latino che in quello germanico. Individualità significa, da un lato, relazione con il mondo (...) ma dall'altro significa che questo essere è un mondo a sé, centrato su se stesso, in una certa misura autosufficiente e chiuso in se stesso. L'esistenza terrena colloca in questa dualità ogni essere spirituale che possiamo designare in breve come “uno”. (...) Chiamiamo individualità la forma sotto la quale questo doppio significato dell'esistenza umana ha la capacità o il desiderio di unirsi in unità (...) Tanto che l'indefinibile determinazione della vita che chiamiamo individualità significa che un essere vive insieme le due cose in una: la concentrazione interiore, il fatto di avere un mondo proprio, il proprio essere autosufficiente, e la relazione positiva o negativa, la tendenza a identificarsi o a ritirarsi, in relazione a un tutto a cui l’essere appartiene” (5). Man mano che il Cartello procede, cresce il mio interesse nel vagliare i tratti identificativi del Romanticismo e nel collocare il ruolo che esso svolge nella Storia delle Idee, ossia la sua importanza nello sviluppo del pensiero e il modo in cui influisce sulla “nuova soggettività dell'epoca”, e in particolare su se stesso, per riprendere l'espressione suggerita da Lacan. Quando si parla di Romanticismo si può partire dal filosofo e teologo tedesco J.G. Herder (Germania, Weimar, 1744-1803) che contribuì all'emergere del Romanticismo nel suo Paese: egli difende la forza creativa che è in ogni popolo, in particolare la lingua, la poesia, la storia, la musica, ecc. Herder “trova il tempo e l'occasione per ‘distruggere’ le sue precedenti conoscenze librarie, per - dice - “indagare e ricercare ciò che credo e penso”. L'incontro con un mondo sconosciuto diventa un incontro con se stesso. Qui sta la caratteristica di questa irruzione tedesca: dai mezzi limitati a bordo e in mezzo alla solitudine in alto mare, il nostro predicatore (Herder), preso dal desiderio di lontananza... crea per sé un nuovo mondo. (...) La poesia romantica è una poesia universale progressiva... deve rendere la poesia viva e socievole e rendere poetiche la vita e la società”. (...) “La poesia arriva sempre troppo tardi o troppo presto, un presente vigoroso ne contesta il posto (...) La poesia deve essere scoperta nella vita, prima di essere racchiusa nel mondo delle parole” (6). Aggiungiamo qualcosa di più sul Romanticismo europeo semplicemente per registrare l'ampiezza geografica e le radici culturali, nonché la portata che ebbe nelle menti dell'epoca, dall'Italia al Regno Unito, passando per la Germania e la Spagna. In Francia, ad esempio, il Romanticismo “è una tendenza artistica, o meglio un insieme di nuove tendenze che mirano a liberare l'arte dalle restrizioni della tradizione o del gusto, a introdurre più colore e movimento e a ravvivarla con il calore del sentimento: ma il Romanticismo è anche un atteggiamento morale e filosofico, una concezione della vita e del pensiero, che gli uomini del tempo hanno impregnato nelle loro opere. (...) Notiamo che, a differenza del Romanticismo tedesco, il Romanticismo francese non ha prodotto nessun filosofo puro, nessun metafisico originale” (7). Per quanto riguarda la Spagna, abbiamo, tra gli altri, uno studio di Guillermo Díaz-Plaja sul Romanticismo in cui riprende l'idea dell’ “Importanza dell'io”. Così, – dice – “Forse la caratteristica più radicale del Romanticismo consiste nello scontro drammatico tra l'io poetico (soggettivo) e il mondo (oggettivo) che lo circonda. È nota la traiettoria – iniziata dalla filosofia, da Cartesio a Kant – che tende a valorizzare l'io spirituale come misura dell'universo. Di conseguenza, il romantico proietta il meglio del suo spirito sull'ambiente circostante. Questo può essere definito idealismo romantico. L'artista sogna le sue forme senza freni o costrizioni: questo è spesso chiamato libertà romantica. (...) C'è l'altra metà: la metà delusa, quella che risulta dallo scontro tra il mondo dei sogni e il mondo reale” (8). Aggiungiamo altre caratteristiche rilevanti segnalate da Diaz-Plaja: la “coscienza della solitudine”, le solitudini della vita e della disillusione, “alle mie solitudini vado, dalle mie solitudini vengo...” direbbe Lope de Vega: il sentimentale che privilegia il sentimento sulla ragione (…). Spinoza diffida degli schemi razionali e sottolinea che la forza d'animo dell'uomo è costituita dalle sue passioni (...) È Antonio Machado che torna alla semplicità e Federico Garcia Lorca aggiunge a questo sfondo popolare tutte le conquiste – immagine e metafora – della nuova lirica” (9). Uno studio più recente sottolinea che “l'Illuminismo è l'inevitabile sottosuolo su cui cresce il Romanticismo, e che quando Germania e Inghilterra erano già romantiche, la Spagna era ben lontana dall'esserlo”. E se esiste una Spagna moderna, essa affonda le sue radici, con tutte le sue conquiste e i suoi fallimenti, nel Romanticismo. È grazie al Romanticismo che la Spagna ha iniziato a scrivere come il resto d'Europa. Grazie ad esso, le idee di libertà e democrazia germogliarono per la prima volta su questo suolo (...). La grande conquista del Romanticismo “fu quella di liberare lo scrittore dal giogo del classicismo”. L'influenza del Romanticismo europeo, la sua visione del mondo e i suoi temi che annunciavano una nuova sensibilità, fu decisiva per i romantici spagnoli, anche se dovette essere adattata alle idiosincrasie di questo Paese e orientarsi all'interno di una tradizione linguistica, tenendo presente la natura eclettica del Romanticismo, cioè prendo tutto il buono che c’è. “Si può concludere che il romanticismo spagnolo non fu mai reazionario; piuttosto si inquadrò in tendenze liberali progressiste, nelle sue creazioni, in sintonia con le circostanze storiche” (10). Seguendo il filo di questa riflessione, trovo che la lettura del “paradigma del Romanticismo” offra un quadro interpretativo in cui mi sento a mio agio e interessato tanto quanto mi riconosco in esso, non senza certe riserve e inquietudini. Tutto sommato, una discreta gioia interiore mi invade nel notare questa decantazione per il “mondo del sensibile”, nel quale sono sempre stato anche senza averlo pienamente integrato e assunto... così che ora era come collocarmi finalmente in modo consapevole, e anche nel mio inconscio? “Al mio posto”, di fronte a questo mondo ostile, pieno di narcisismo ed egoismo (che ha colto così bene il motto del nostro Congresso, “Ognuno nel suo mondo”), di mancanza di solidarietà e di violenza crescente, dove le guerre sono state e sono l'esponente del culmine di questa logica di dominio e di “barbarie normalizzata”, pericolosamente “accettata”. Freud era sensibile al conflitto della guerra, come chiarisce nella sua corrispondenza con Einsitein, a cui chiede nell'ultima lettera: “Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti (...) Nel frattempo abbiamo il diritto di dire a noi stessi: tutto ciò che promuove lo sviluppo della cultura lavora anche contro la guerra” (11). Potremmo dire che Freud si trova in una sorta di crocevia tra scienza e pensiero romantico. Infatti, Jenny Levine Goldner, nel suo lavoro di “Maestra en Filosofía” , compie un'indagine dettagliata degli scritti e delle lettere di Freud, in cui emerge chiaramente “Freud, erede di un romanticismo filosofico tedesco” (12). Freud, ne “Il disagio della civiltà” (1929), a proposito della frammentazione del soggetto, solleva l'antagonismo tra le esigenze pulsionali dell'Io-soggetto e le restrizioni e i vincoli imposti dalla cultura, dalla società: “Freud scrive costantemente che la medicina o la scienza moderna avevano trascurato le preoccupazioni sulla psiche, che erano ancora più importanti e potenti di quelle della coscienza. I medici di quel tempo, scrive Freud, erano stati educati al rispetto esclusivo dei fattori anatomici, chimici e fisici e non erano preparati a ciò che dava significato allo psiche. In questo periodo materialistico-meccanicistico, la medicina fece grandi progressi, ma mostrò anche una miope ignoranza del supremo e più difficile dei problemi della vita, cioè la vita psichica, l’inconscio” (13). Infatti, l'inconscio freudiano e la teoria delle pulsioni, che rivoluzionavano la concezione della vita sessuale, avrebbero prodotto uno sconvolgimento nelle menti di coloro che si erano assicurati la sicurezza fornita dalle idee dell'Illuminismo e dal suo massimo esponente: la conoscenza formulata dalla coscienza della ragione cartesiana. Si trattava, insomma, di elaborare un modello diverso da quello epistemologico delle scienze “esatte”, dove il soggetto è escluso, cioè un'alternativa al modello fisico-matematico dominante. In questo senso Heidegger, nelle sue lezioni subito dopo la guerra del 1914-1918, afferma che fino al quel momento la filosofia non si è occupata a sufficienza di questa mondanità (...), sembra che la richiesta enfatica di Heidegger di prendere finalmente sul serio la “mondanità” del mondo ripeta un movimento della fine del XIX secolo: la scoperta della realtà reale. Lì, l'economia è stata scoperta sotto lo spirito (Marx), l'esistenza mortale sotto la speculazione (Kierkegaard), la volontà al fondo della ragione (Schopenhauer), l'istinto sotto la cultura (Nietzsche, Freud) e la biologia nel sottosuolo della storia (Darwin). (...) Per Heidegger, tali concezioni non penetrano nella “potenzialità della vita”, che è il luogo reale di produzione di tutte le interpretazioni di sé e delle immagini del mondo, siano esse di tipo scientifico o meno. Nel suo corso invernale del 1921-1922 ha trovato un nome per questa realtà reale: “vita fattuale”. Questa “vita fattuale” non è più sostenuta da alcuna istanza metafisica, cade nel vuoto e si apre nell’esserci (14). Infatti, Heidegger in “Essere e tempo” ci dice che “l'essenza dell'essere dell'uomo non si definisce a partire dall’ 'essere io': non si definisce come la personalità né tanto meno come la 'soggettività' di un soggetto, ma si definisce a partire dallo stare dentro il contorno dell'essere, cioè dall’‘esserci'”. In questa linea di pensiero, l’ “essenza dell'esserci” consiste nella sua esistenza, nella questione del “senso dell'essere”, (cioè) l’ “esserci” è il modo in cui l'aperto, la radura in cui l’ “essere”, ora chiarito, si apre alla comprensione umana. (Quindi) “l'esserci” si riferisce proprio a questa radura dell'essere (...), dove “ex-sistenza” significa concretamente essere all'interno dell'aperto in un rapimento estatico” (15). Heidegger si riferisce alle estasi temporali, all'esserci, al presente e alla preminenza del divenire” (16). Heidegger, da “Essere e tempo”, nel paragrafo “L'essere del Dasein come cura”, dice che l'angoscia “come disposizione affettiva, è un modo di essere-nel-mondo nella condizione di essere gettato...: un essere-nel-mondo fattualmente esistente. (...) L'essere libero per l’essere-potenza più proprio e, con esso, per la possibilità di proprietà e di improprietà, si mostra con originaria ed elementare concretezza nell'angoscia. Ma essere rivolto verso il proprio essere-potenza significa ontologicamente che nel suo essere il Dasein ha sempre anticipato se stesso (cioè), “è sempre al di là di se stesso nella misura in cui è rivolto verso l'essere-potenza che esso stesso è” (...). La condizione ontologico-esistenziale della possibilità di essere liberi per le proprie possibilità esistenziali sta nell'anticipazione di sé, nella misura in cui è rivolta verso il proprio essere” (17) . E Nietzsche (1844-1900), che non ha conosciuto le atrocità della Prima guerra mondiale né la guerra di classe in Spagna del 1936-1939, preludio della Seconda guerra mondiale, cosa ci dice nel suo modo di pensare la presa di distanza dai postulati dell'Illuminismo? Esaminiamo la sua posizione, come afferma nella sua biografia R. Safranski: “Nietzsche sa che la forma 'divisa' dell'esistenza è ormai ineluttabile. Il ritorno alla concordia preistorica per quanto riguarda le relazioni interiori dell'uomo è chiuso, (...) la rottura, le scissioni, appartengono alla condizione umana, (...) bisogna 'riuscire a prendere le redini del potere su se stessi'. (...) Chi è riuscito a fare di se stesso una 'persona intera' è riuscito nonostante la storia” (18). A questo punto mi accorgo che sorgono domande che possono permettermi di modificare l'enunciazione del mio tratto iniziale, l'esistenza. Quindi, a seguito di quanto emerge dalla mia riflessione, propongo di aggiustarla con una formulazione più in linea con ciò che prevedo in questo momento. Rimane in questi termini: “La dimensione temporale dell'esistenza umana”, ponendo al centro il concetto di vita “gettata” e le sue vicissitudini nel tempo: “La vita ha senso se l'esistenza è intesa come tempo per rendere effettiva la libertà dell'essere umano” (frase attribuita a Nietzsche in Wikipedia). E Nietzsche come affronta il periodo storico in cui si trova? Vediamo sinteticamente cosa dice Heidegger a questo proposito: Nietzsche usa il termine “nichilismo” per designare il movimento storico (in Europa) che ha riconosciuto per primo, la cui interpretazione più essenziale si riassume nella breve frase: “Dio è morto”. Ciò significa: “Il Dio cristiano, come rappresentazione riferita al 'soprasensibile ' e alle sue varie interpretazioni – 'ideali ', 'norme ', 'principi ' e 'regole ', i 'fini ' e i 'valori ' che sono stati eretti 'sopra ' l'ente per dare all'ente un 'senso ' – ha perso il suo potere sull'ente e sul destino dell'uomo”. In altre parole, “il nichilismo è quel processo storico per cui il dominio del ‘soprasensibile’ decade e diventa nullo, per cui l'ente stesso perde il suo valore e il suo significato. Il nichilismo è la storia dell'ente, (...) è quell'evento di lunga durata in cui la verità sull'ente nel suo complesso si trasforma e si muove verso un fine da esso determinato”. (...) “Ogni epoca, ogni umanità è sostenuta da una metafisica (cioè la verità sull'ente) e posta da essa in una certa relazione con l'ente nella sua totalità e quindi anche con se stessa (...) La fine della metafisica non significa la fine della storia. È l'inizio del prendere sul serio il 'fatto' che Dio è morto”. (...) “Nietzsche stesso” continua Heidegger, “intende la sua filosofia come l'introduzione all'inizio di una nuova epoca”. In questo senso, prosegue Nietzsche, “la commedia che viene rappresentata (nel teatro del mondo attuale) è già un’altra”. Il fatto che in essa i fini precedenti scompaiano e i valori precedenti siano svalutati non è vissuto come un mero annientamento e deplorato come una mancanza e una perdita... ma è salutato come una liberazione, promosso come una conquista definitiva e riconosciuto come un compimento. Perciò, dice Nietzsche, “il nichilismo è la verità che diventa dominante, secondo la quale tutti gli scopi che l'ente ha avuto finora sono diventati obsoleti (...) Ma il nichilismo raggiunge la sua fine nel compito libero e autentico di una nuova posizione dei valori”, cioè “il luogo stesso dei valori scompare e non solo che essi diventano obsoleti” (...) “Con ciò diventa necessaria una nuova posizione dell'essenza dell'uomo. Ma poiché 'Dio è morto', ciò che deve essere la misura e il centro per l'uomo può essere solo l'uomo stesso…” (19) Quell'uomo, ci ha detto Heidegger. l’ “essenza” di questo ente che siamo, consiste nel suo avere-quell'essere, e in quanto essenzialmente costituito dall'essere-nel-mondo è sempre il suo esser - “Ci” (Da'), la sua esistenza, i suoi modi di essere possibile, in modo tale che – continua Heidegger – il Dasein, determinato dall'essere ogni volta mio, è ogni volta la sua possibilità. Heidegger usa il Dasein “nel senso esclusivo dell'esistenza umana”, (...) e significa letteralmente “esserci”, nel modo di “essere il suo esserci” e si riferisce all'essere umano nella misura in cui è aperto a se stesso, al mondo e agli altri esseri umani” (in modo tale che) il mondo del Dasein “è un mondo in comune. L'essere-in è un co-essere con gli altri..., è una coesistenza”. Si riferisce al “co-Dasein” degli altri che sono con me… Coesistenza non intesa come convivenza con gli altri, ma nel senso dell'esistenza o Dasein dell'altro, degli altri, nella misura in cui sono anche esistenza umana, cioè un Da-sein come disposizione affettiva dell'esistenza umana” (20). Non sfugge a nessuno nel nostro ambiente che la psicoanalisi, dal Seminario XX di Lacan in poi, prende “persino” una piega verso il suo “ultimo insegnamento”, nelle parole di J.A. Miller. Il reale, l'inconscio reale, il godimento, la non-relazione, i nodi, il “c'è dell'Uno” ecc. sono concetti che subentrano nell'insegnamento e nella pratica analitica attuale... Sotto quale soggettività dell'epoca, sotto quale storicità il tempo cronologico – che esiste – si articola con il tempo logico che deve essere afferrato e fatto proprio? Sono due tempi in una sorta di “banda di Moebius”? Nelle prime ore del mattino del Venerdì Santo, quando non riuscivo a terminare il mio testo, e dato che l'insonnia non mi abbandonava, mi è capitato di sfogliare il libro di Anna Colomhel-Plouzennec, “Lacan et les noeuds: corps vivant, cops jouissant, corps parlant” in cui analizza l'ultima opera di Lacan “alla luce della lettura proposta da Jacques-Alain Miller”, in cui “evidenzia la svolta decisiva operando un fondamentale cambio di paradigma con l'introduzione dei nodi e della loro gestione”. .Bibliografia: (1) Francois Regnault, Dieu est inconscient, Navarin, Parigi 1985, Buenos Aires, 1986, 131 pagine. (2) Étienne Gilson, La Philosophie au Moyen Áge, Ed. Payot, Parigi 1999 (3) George Simmel, “Philosophie de la Modernité”, Ed. Payot, Paris 1989 (4) Jean-Louis Vieillard-Baron, “Introduzione” al libro di G. Simmel, cit. (5) Simmel, cit, pp. 282-283, (traduzione propria dal francese). (6) Rüdiger Safranski “El Romanticismo. Una odisea del espíritu alemán” Edizioni TusQuests, 379 p., citazioni alle p. 20, 56 e 196. (7) Philipe Van Tiechem. “Le Romantisme Francais” PUF Prima Ed. Parigi 1944. Quindicesima ed. 1996. 127 pagine, citazioni a p. 104 e 110-111 (traduzione propria). (8) Guillermo Diaz-Plaja, “Introducción al estudio del Romanticismo Español” Espasa-Calpe. Buenos Aires 1958, 207 p, citazione a p.59 (9) G. Diaz-Plaja, Idem, p. 39-65 e 52. (10 ) Ricardo Navaz Ruiz, “El Romanticismo Español” Ed. Cátedra, Madrid 1990, 484 pagine, cit. pp. 46-50 (domande riprese anche alle pp. 94-96). (11) Sigmund Freud, “¿Por qué la guerra? (Einslein e Freud) (1933), (1932)”, S. Freud, Opere raccolte. N° XXII. Ed. Amorru (pp. 179-198). Vale la pena di ricordare quanto afferma HEIDEGGER anni dopo: “... Le due guerre mondiali non hanno fermato il movimento del nichilismo, né lo hanno distolto dalla sua direzione”. M. Heidegger e Ernst Junger , “Acerca del nihilismo”, Paidòs, UAB, Barcellona, UAB, maggio 2010, 127 pp, citazione, 85 (12) Jenny L. Goldner, La influencia del romanticismo filosófico alemán en la Obra de Sigmund Freud. Universidad Iberoamericana, México. D.F. 2014. 120 pp. (13) J.L.Goldner, idem, pp. 31-40 e 59-80. Ricordiamo che Freud, nella sua corrispondenza con W. Fliess gli dice: “... nella mia prima giovinezza il mio unico desiderio era l'erudizione filosofica, e ora, che sto passando dal campo della medicina a quello della psicologia, mi trovo sul punto di realizzare questo desiderio…”. FREUD, “Epistolario: 1873-1939”, Plaza-Janes Ed., Barcellona, 1984, 400 p., citazione a p.208. (14) Rüdiger Safranski, “Un maestro de Alemania. Heidegger y su tiempo”, edizioni TusQuests, 543 pagine, citazioni pp.140-141. (15) Martin Heidegger, “La metafísica del idealismo alemán (Schelling)”, Herder ed., Barcellona, 2022, 230 pagine, citazioni pp.72-78. (16) Martin Heidegger, “Ser y tiempo”, Editorial Troica, Madrid, seconda edizione 2009, 490 pagine, (cfr. “Temporeidad y Cotidianidad”, p. 149-165). ( 17) Martin Heidegger, Idem, citazioni p. 209-214, e note 207 e 209, a p. 478. (18) Rüdiger Safranski, “Nietzsche. Biografia de un pensamiento”, TusQuets ed., Barcellona 2001, 410 p., cit. p. 196 e 197. (19) Martin Heidegger, “Nietzsche”, Ed. Destino, Barcellona 2000. 947 p., citazioni p. 549-568. (20) Martin Heidegger, “Ser y tiempo”, Idem, pp. 134-159, e nota 137, pp. 467-468. i clic qui per modificare.
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