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Dal soggetto supposto sapere al sapere senza soggetto: una prospettiva psicoanalitica sull’Intelligenza Artificiale

6/5/2025

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Chiara Rossi

In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale acquisisce un ruolo sempre più significativo nella nostra quotidianità, la psicoanalisi si trova di fronte a una sfida cruciale: preservare la propria specificità e rilevanza in un mondo che tende a ridurre ogni esperienza a risposte immediate e processi standardizzati. Sebbene l'IA si presenti come uno strumento potente, capace di replicare alcune funzioni cognitive umane, la sua capacità di comprendere e interagire con la realtà rimane profondamente diversa da quella dell'intelligenza umana. È proprio in questa divergenza che si apre lo spazio per una riflessione psicoanalitica sul senso dell’intelligenza e del sapere.
Il termine intelligenza artificiale risulta, infatti, per sua natura ampiamente indeterminato e sfuggente. Benché si riferisca a un insieme specifico di progetti, realizzazioni teoriche e tecnologiche, l'IA manca di una definizione univoca e ufficialmente condivisa, restando un concetto in continua evoluzione. Daniel Andler1 la definisce un vero e proprio enigma, poiché mira a replicare l'intelligenza umana, la cui natura è altrettanto enigmatica e inafferrabile.
A differenza dell'IA, però, l’intelligenza umana non può essere pienamente descritta né catturata attraverso parametri misurabili o definizioni esaustive. Essa va concepita come una norma che qualifica il rapporto tra un individuo e il proprio mondo. Questo implica che l'intelligenza non vada considerata semplicemente come un insieme di facoltà cognitive, ma una modalità con cui il soggetto si confronta con la realtà, interpretandola e agendo su di essa.

L’intelligenza umana si manifesta nella capacità di risolvere problemi attraverso pensieri che portano informazioni e che permettono al soggetto di riferirsi a sé stesso o a un oggetto con intenzionalità, comprendendo i propri pensieri e avendone più o meno consapevolezza.
Non si limita a trattare dati o informazioni, ma è alimentata da un sapere che si costituisce nell’interazione con il linguaggio e con il desiderio. Questo processo è caratterizzato dalla presenza dell’inconscio che partecipa attivamente alla formazione del pensiero e del sapere in rapporto all’Altro.
Proprio per questo mentre l’intelligenza umana è sempre alle prese con un sapere che si scontra con la mancanza dell’Altro che non può rispondere a tutto e con la contingenza del reale, l’IA tenta di eliminare ogni ambiguità e incertezza, costruendo simulazioni e modelli basati su regole deterministiche e predeterminate in grado di rispondere a qualsiasi domanda posta dal soggetto che la usa.
Un sistema esperto, ad esempio, non possiede l'intelligenza dell'esperto umano, ma applica regole empiriche entro confini ben definiti. Questo approccio esclude la soggettività e riduce l’intelligenza a un insieme di operazioni formalizzabili, ignorando la complessità dell’esperienza vissuta. L’IA, infatti, per sua natura, considera la generalità una caratteristica essenziale di ogni modello o simulazione dell'intelligenza, mentre l’intelligenza umana, nella sua specificità e unicità, è in grado di affrontare l’ambiguità, l’imprevisto, l’incertezza, la soggettività. L’assenza di una capacità di autoreferenza e di consapevolezza in un sistema di intelligenza artificiale rende impossibile per quest’ultimo accedere al desiderio che guida il soggetto umano e che lo spinge a interrogarsi sul senso delle proprie azioni e dei propri pensieri.
Dal punto di vista dell'IA, dunque, l'intelligenza è concepita come capacità di raggiungere obiettivi specifici attraverso strategie ottimizzate. In tal senso, essa può essere vista come un tentativo di costruzione simbolica di ciò che l’umano percepisce come intelligenza, operando prevalentemente nel registro dell’immaginario, senza poter mai attingere a quella dimensione di jouissance che contraddistingue l’esperienza umana.
In questo senso, l'IA può essere considerata un termine passepartout che ingloba dispositivi digitali progettati per facilitare, amplificare e automatizzare l’azione umana in diversi ambiti. Tuttavia, essa non potrà mai sostituire l’intelligenza umana né replicare quella complessità che scaturisce dall’interazione con l’Altro tra sapere, desiderio e mancanza.
La questione di fondo, quindi, non riguarda solo la capacità dell'IA di imitare l'intelligenza umana, ma la possibilità stessa di cogliere ciò che dell’intelligenza umana rimane fuori dalla simbolizzazione e dalla formalizzazione: quel reale che sfugge a qualsiasi tentativo di riduzione e che costituisce la vera natura enigmatica dell’intelligenza umana.


Nel linguaggio dell'AI, ogni significante trova una corrispondenza immediata e precisa in un dato significato predefinito, governato da una logica binaria e calcolabile. Questa relazione rigida e predeterminata è funzionale per l’elaborazione di dati, ma manca della dimensione di apertura e indeterminazione che Lacan attribuisce alla struttura del linguaggio umano.
Il significante, nella teoria lacaniana, non ha un valore meramente rappresentativo, bensì costituisce un elemento dinamico che si muove per metonimia, senza mai esaurirsi in un significato stabile. È proprio in questa incertezza, in questo buco nel linguaggio, che si colloca il reale, un campo insondabile che sfugge alla presa simbolica e che l'IA, per sua stessa natura, non può incorporare.


La logica dell'IA, invece, è chiusa e rigida, essa riduce i significati a mere rappresentazioni numeriche e algoritmiche. Tale logica simbolica non può rappresentare la profondità del Simbolico lacaniano, che è radicata nella metafora e nella metonimia. È in questo scarto che si apre il campo del desiderio, dove si crea spazio per l'emergere del reale, una dimensione di impossibilità e mancanza che nessun algoritmo può catturare o codificare.
Il reale, in questa prospettiva, non è semplicemente ciò che è fuori dal linguaggio, ma è il buco attorno al quale il Simbolico si organizza, una dimensione che sfugge e resiste alla logica binaria. L'IA, priva di questa dialettica e di questa mancanza, rischia quindi di ridurre il linguaggio a una successione di segni e codici privi di desiderio e di apertura all'inconscio.


Il sapere prodotto dall’IA è quindi un sapere vuoto, perché privo di un soggetto che lo abiti. Esso rimane al livello dell’enunciato, ma non tocca l’enunciazione, ovvero quel punto in cui il soggetto prende posizione e attribuisce senso.


Il sapere nel reale a cui si riferisce Lacan2 implica una conoscenza che non è solo cognitiva o informazionale, ma che è anche incarnata e radicata nell'inconscio, cioè nel desiderio e nella storia personale del soggetto. Ha qualcosa a che fare con l’esperienza.
Sebbene, infatti, l'IA generativa possa creare immagini di momenti perduti o addirittura mai vissuti, recuperando un passato che non è mai stato immortalato (come, ad esempio, nel progetto di ricerca Syntetic Memories), ciò che viene realmente rappresentato non è il ricordo in sé, quanto piuttosto una rappresentazione di un’immagine.
In questo processo, il desiderio non trova un’effettiva soddisfazione, poiché l’IA non rappresenta l’oggetto del ricordo, ma piuttosto lo sostituisce con significanti che appaiono grossolanamente simili all’immagine desiderata, senza poter catturare il senso unico e soggettivo di ciò che è stato perso.
Questo meccanismo alimenta un immaginario fatto di specchi, dove l’apparenza sostituisce la realtà, e la simulazione prende il posto dell’autenticità. È in questa logica che Lacan già anticipava la questione dell’“artefatto”, distinguendolo radicalmente da ciò che oggi chiamiamo “artificiale”.


“Artefatto” e “artificiale” condividono la stessa radice semantica, derivando dal termine latino ars (arte) e dal verbo facere (fare). Entrambi fanno riferimento a qualcosa che è “fatto con arte” o “fatto con artificio”. Tuttavia, nel loro utilizzo, i due concetti possono assumere connotazioni molto diverse.
La parola artefatto deriva dal latino “artefactum”, che è un composto di ars (genitivo artis), che significa "arte", "abilità", o "tecnica", e di factum, participio passato di facere, che significa "fare". Letteralmente, artefactum significa quindi “fatto con arte” o “costruito con abilità”. L’idea di artefatto denota qualsiasi oggetto o prodotto creato dall’uomo, in contrasto con ciò che è prodotto dalla natura. L’accento sull’arte e sulla fattura indica un risultato che implica abilità e/o ingegno umano.
La parola artificiale proviene dal latino “artificialis”, anch'essa formata a partire da ars (arte) e facere (fare), attraverso il sostantivo artificium, che indica abilità o ingegno nell’operare con mezzi tecnici. Artificialis è l’aggettivo derivato da artificium e significa, quindi, “relativo all’arte o all’ingegno”. In latino, artificialis si riferisce a qualcosa prodotto dall’abilità umana, mettendo in risalto il carattere tecnico o meccanico dell’azione, in opposizione a ciò che è spontaneo o naturale. Il termine porta con sé l’idea di una costruzione che segue regole, abilità e procedure umane, suggerendo qualcosa creato deliberatamente. Tuttavia, con il passare del tempo, artificiale ha acquisito una connotazione associata a ciò che è “finto” o “non autentico”. In particolare, nell’uso moderno, artificiale indica qualcosa prodotto dall’uomo con metodi tecnologici o meccanici, spesso per imitare o sostituire ciò che è naturale, come nel caso di “intelligenza artificiale”.


Artefatto e artificiale condividono, quindi, una radice comune nella loro natura creativa ma si differenziano profondamente per il modo in cui questa produzione avviene.
L’artefatto è il prodotto di un processo creativo, mentre l’artificiale è il risultato di un processo tecnico. Entrambi producono qualcosa di nuovo, ma l’uno racchiude un pensiero e un’invenzione, mentre l’altro si limita a riprodurre in modo meccanico.    
Il termine artificiale, legato al concetto di IA, sottintende la possibilità di fornire una risposta piena e completa riducendo la questione al puro significante. L’artificiale, dunque, si caratterizza per la sua pretesa di totalità e di completezza.
L’artefatto, invece, pur essendo prodotto, mantiene un margine di indeterminatezza, di ambiguità circa il significato. Questo margine è ciò che Lacan (1973) ha definito dotta ignoranza, ovvero la consapevolezza che il sapere non è mai pienamente posseduto, ma deve essere costantemente ricostruito e ripensato. Tale concetto si lega strettamente all’articolazione della posizione del soggetto e del sapere analitico.


Nel 1953, Lacan sviluppa l’idea che il sapere di un soggetto è sempre un sapere parziale, segnato da una mancanza, da un non-detto che si struttura attorno alla manque à être (mancanza a essere)3. Nel Seminario III, Lacan sostiene che è proprio tale mancanza a rendere operativo il discorso definendone la logica a partire dalla sua posizione4. Questa mancanza opera come un punto attorno al quale si organizza la logica del discorso: il soggetto parla e desidera proprio a partire da ciò che gli manca, da ciò che rimane inaccessibile o non completamente comprensibile. Qualche anno dopo, sottolinea che il punto fondamentale non è sapere se un sapere si articola o meno, ma piuttosto sapere in quale posto occorre essere per sostenerlo5. Tale posizionamento, che è essenziale per l’analista, permette di evitare la trappola di un sapere oggettivo che chiuderebbe ogni possibilità di elaborazione simbolica.
Il sapere dell’analista deve essere quindi un sapere ignorante6, poiché si pone nella posizione di agente motore, il non-sapere, come costitutivo del soggetto. In tal senso, l’ignoranza dell’analista è una modalità di posizionamento rispetto al sapere, un modo di istituzionalizzare il non-sapere che permette l’emergere del discorso del paziente mantenendo aperto lo spazio dell’interrogazione, in un gioco continuo tra presenza e assenza, sapere e non-sapere, artificio e realtà. Non si tratta di un sapere oggettivo o totalizzante, posizione completamente rovesciata rispetto al sapere dell’AI, ma piuttosto un sapere che deve farsi carico del non-sapere, di quel vuoto che è costitutivo del desiderio umano.


Per Lacan, il sapere analitico è sempre mediato dal Sujet supposé Savoir (Soggetto supposto Sapere), ovvero alla posizione che il paziente attribuisce all’analista come detentore di un sapere che egli stesso non possiede. Tuttavia, l’analista sa di non sapere, e il suo ruolo non è quello di colmare le mancanze del paziente con risposte predeterminate, bensì di mantenere aperto lo spazio della domanda.
L’analista diventa così un artefatto: una costruzione, un prodotto creativo che prende forma specificamente nella relazione analitica tra paziente e analista stesso.
Egli non si propone come risposta definitiva o artificiale a un vuoto, ma come manifestazione di quel vuoto stesso, come tentativo di rappresentare l’irrapresentabile.
L’artefatto-analista, quindi, funge da supporto fantasmatico. Non è da intendersi come una costruzione fittizia o priva di senso, ma come un elemento che rivela la struttura del desiderio e del sapere nella loro indeterminatezza, un oggetto che testimonia la mancanza costitutiva e che si offre come luogo di elaborazione simbolica, laddove l’artificiale tenta, invano, di fornire una risposta piena e completa. Di conseguenza, l’artefatto-analista emerge come un prodotto reale. In contrapposizione, un prodotto artificiale si rivela di natura immaginaria, una semplice replica, una simulazione, una copia.
La differenza tra artefatto e artificiale appare, dunque, chiara: mentre l’artificiale si pone come risposta, l’artefatto si configura come domanda.


Domandare all’AI implica la certezza e la garanzia di trovare sempre una riposta di cui si può essere più o meno soddisfatti e che satura e, pertanto, chiude, la domanda stessa.
Al contrario, la questione della domanda in psicoanalisi è centrale, poiché mette in luce la struttura stessa del desiderio umano e il modo in cui il soggetto si relaziona con il sapere.
La domanda, infatti, è proprio ciò che spinge un soggetto a chiedere aiuto nel dispositivo analitico ad un Altro - l’analista - che si supporrà ne sappia di più.
Tuttavia, a differenza di altre discipline o pratiche che mirano a fornire risposte universali e definitive, la psicoanalisi si fonda proprio sulla sospensione della risposta, sulla possibilità di mantenere la domanda del soggetto aperta e mai completamente soddisfatta rispettandone la singolarità e l’unicità della configurazione di desiderio e di godimento7.


È rintracciabile nella psicoanalisi un atteggiamento critico nei confronti della nozione di verità oggettiva e universale e della possibilità di ricondurre l’esperienza soggettiva a un dato di realtà. Freud stesso, nell’Interpretazione dei sogni8, propose la concezione del sogno non come rivelazione di fatti concreti, ma come manifestazione simbolica del desiderio inconscio. Sempre Freud, qualche anno dopo, introdusse il concetto di astenersi dal comprendere nel contesto dell'ascolto analitico, sottolineando l'importanza di non cercare di comprendere il paziente nel senso comune del termine e di mantenere un’attenzione fluttuante9.


Questo invito a sospendere il desiderio di comprendere ogni dettaglio del discorso del paziente deriva dalla necessità di creare uno spazio in cui l’inconscio possa manifestarsi liberamente, senza essere immediatamente catturato e interpretato.
Nella pratica analitica, questo atteggiamento di sospensione richiede una presenza attenta che permetta al discorso del paziente di articolarsi secondo il proprio ritmo e le proprie logiche.
L’obiettivo non è decodificare immediatamente i contenuti del discorso, ma di lasciare che le parole, i silenzi, i lapsus e le ripetizioni possano rivelare le strutture e le dinamiche inconsce che li sottendono. In questo senso, l’interpretazione non è un intervento direttivo, ma una risposta calibrata che mira a restituire al paziente qualcosa di inaspettato e potenzialmente trasformativo.
Sospendere il desiderio di comprendere significa anche accettare che il senso pieno non è mai immediatamente accessibile, ma si costruisce nel tempo, nel movimento dialogico tra il soggetto e l’Altro rappresentato dall’analista.


La psicoanalisi, quindi, non è la pratica del “poter sapere tutto”, ma piuttosto la pratica del “non poter sapere tutto”.
È proprio questa impossibilità a sapere tutto che costituisce la forza del sapere psicoanalitico, un sapere che rispetta il reale e che, proprio per questo, non cede alla tentazione di saturare la domanda.


Nella società contemporanea, dominata dalla pretesa di un sapere totale e immediato – incarnata emblematicamente dalle nuove tecnologie e dall’IA – si rischia di confondere il sapere con il potere.
La convinzione di poter “padroneggiare tutto” si traduce in una forma di godimento che mira a saturare ogni mancanza, annullando il vuoto e riducendo il desiderio a una mera soddisfazione pulsionale. Lacan, nel suo discorso sul capitalismo10, evidenzia come questo sistema si configuri come una macchina acefala del godimento.
Il discorso del capitalista opera attraverso una logica che rende tutto apparentemente possibile.
Attraverso un processo di produzione industriale del desiderio, il capitalismo genera uno stato costante di attivazione – simile a uno stato maniacale – e offre oggetti non per soddisfare il bisogno o colmare la mancanza, ma per elettrizzare l’insoddisfazione11.
L’offerta illimitata di oggetti non ha come fine la realizzazione del desiderio, bensì il perpetuo rilancio della domanda, creando una spirale infinita di insoddisfazione. Analogamente, l’IA agisce come una macchina di pseudo-soddisfazione: fornisce risposte rapide e preconfezionate, ma mai veramente complete e quindi incapaci di affrontare la complessità umana.
Come il capitalismo, l’IA non colma la mancanza, ma la sfrutta, generando a sua volta una pseudo-mancanza che alimenta la dipendenza dall’algoritmo.
Questo parallelismo tra il capitalismo e l’IA rivela una struttura comune: entrambi negano la dimensione dell’impossibile, proponendo un mondo dove tutto è raggiungibile, tutto è calcolabile, ma dove il soggetto viene alienato e il desiderio ridotto a un ciclo sterile di produzione e consumo. Entrambi rappresentano sistemi che sfruttano il desiderio umano non per liberarlo, ma per vincolarlo, trasformandolo in un motore automatico che si alimenta di vuoti artificiali.


Per evitare di cadere in quella che Lacan definiva "la trappola dell’Altro"12 – ossia, in questo caso, l’attribuzione di un sapere assoluto e totalizzante all’IA – è necessario mantenere chiara la distinzione tra una macchina parlante e un soggetto che parla, tra un sapere senza Soggetto e un pensiero radicato nel desiderio. Solo attraverso questa distinzione possiamo evitare di inventare un sapere che funzioni come un’illusione.


La psicoanalisi, in questo senso, offre una possibilità di salvaguardare l'umano, preservando il suo legame con la mancanza e con il desiderio, e opponendosi alla tentazione di una conoscenza completa e totalizzante che rischia di appiattire l’esperienza umana.




Note
  1. Andler, D. (2024). Il duplice enigma. Intelligenza artificiale e intelligenza umana. Piccola biblioteca Einaudi.
  2. Lacan, J. (2005). Il Seminario, Libro XXIII: Il Sinthomo (1975-1976). Torino: Einaudi
  3. Lacan, J. (2008). Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954). Torino: Einaudi.
  4. Lacan, J. (2003). Il Seminario. Libro III. Le psicosi (1955-1956). Torino: Einaudi.
  5. Lacan, J. (2003). Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964). Torino: Einaudi.
  6. Lacan, J. (2001). Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970). Torino: Einaudi.
  7. Ne “Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi”, Lacan afferma: "L'analista deve sostenere la posizione di non-sapere, per consentire l’emergere dell’inconscio". p. 248
  8. Freud, S. (1900). L'interpretazione dei sogni. Trad. di C. L. Musatti. Torino: Bollati Boringhieri
  9. Freud, S. (1912). Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico. In Opere di Sigmund Freud. A cura di C. L. Musatti. Torino: Boringhieri,Vol.6 (1974), p. 532–541.
  10. Lacan introduce “i quattro discorsi” nel suo Seminario del 1969- 1970 - Il rovescio della psicoanalisi. 
  11. “Lo sfruttamento del desiderio è la grande invenzione del discorso capitalista”: Lacan, J. (1978). Radiophonie. In J.-A. Miller (Ed.), Lacan in Italia (1953-1978). Trad. di A. Di Ciaccia. Milano: La Salamandra. (Opera originale pubblicata nel 1970)
  12. Lacan, J. (2004). Il Seminario. Libro V: Le formazioni dell'inconscio (1957-1958). Torino: Einaudi.


Bibliografia
Andler, D. (2024). Il duplice enigma. Intelligenza artificiale e intelligenza umana. Piccola biblioteca Einaudi.
Lacan, J. (1978). Radiophonie. In J.-A. Miller (Ed.), Lacan in Italia (1953-1978). Trad. di A. Di Ciaccia. Milano: La Salamandra. (Opera originale pubblicata nel 1970)
Lacan, J. (2008). Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954). Torino: Einaudi.
Lacan, J. (2003). Il Seminario. Libro III. Le psicosi (1955-1956). Torino: Einaudi.
Lacan, J. (2004). Il Seminario. Libro V: Le formazioni dell'inconscio (1957-1958). Torino: Einaudi.
Lacan, J. (2003). Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964). Torino: Einaudi.
Lacan, J. (2001). Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970). Torino: Einaudi.
Lacan, J. (2005). Il Seminario, Libro XXIII: Il Sinthomo (1975-1976). Torino: Einaudi.
Freud, S. (1900). L'interpretazione dei sogni. Trad. di C. L. Musatti. Torino: Bollati Boringhieri
Freud, S. (1912). Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico. In Opere di Sigmund Freud. A cura di C. L. Musatti. Torino: Boringhieri,Vol.6 (1974), p. 532–541.
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