di Aditya Chakrabortty
I funzionari che hanno sfondato la porta della casa di Joyce Carol Vincent volevano consegnarle un avviso di sfratto. Hanno invece trovato il suo cadavere accasciato sul divano, con la luce del televisore che ancora si rifletteva tremolante su di lei. Era il 2006, ed era rimasta lì per quasi tre anni. Il corridoio era ricoperto delle richieste di pagamento dell’affitto, da lettere di vario genere, il cibo nel frigo era scaduto da un pezzo, e intorno al suo scheletro erano ammucchiati i regali che aveva appena impacchettato, per il Natale 2003. Come Joyce sia morta rimane un mistero: non c’erano segni di violenza e di lei non beveva né si drogava. Ma la domanda più importante -– quella che fa un nodo in gola – è: com’è possibile ci siano voluti tre anni perché qualcuno si accorgesse della sua morte? Estroversa e carina, trentotto anni, aveva alcune sorelle, compagni, ex colleghi ed ex fidanzati. Le persone appartenenti a quelle cerchie sociali apparentemente l’hanno persa di vista. Il monolocale fa parte di un complesso residenziale sopra l'enorme centro commerciale a Wood Green, a nord di Londra, con migliaia di persone che gli brulicano intorno. Ma nessuno dei vicini ha riferito nulla di strano. Il corpo di Joyce era decomposto al punto da poter essere identificato solo attraverso il confronto delle impronte dentali con una foto di lei sorridente in vacanza. Il fetore era stato coperto da quello dei bidoni di spazzatura maleodoranti, e le mosche e gli insetti che sciamavano sui davanzali delle finestre erano state semplicemente ignorate.
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Conferenza di Jacques-Alain Miller e di Eric Laurent
Libreria Campus, Torino, 8 novembre 1980 MARCO FOCCHI - Lacan ha parlato della situazione della psicoanalisi in un momento storico preciso: ne ha parlato infatti nel 1956. Ora, in questi anni ’80, dopo la lettera del 5 gennaio che decreta la dissoluzione dell’ École freudienne, nuovamente si pone il problema della situazione della psicoanalisi in tutti i luoghi dove l’insegnamento di Lacan ha fatto sentire i suoi effetti: da Parigi, a Caracas, all’Italia. Jacques-Alain Miller e Eric Laurent sono tra i maggiori esponenti del direttivo della Cause freudienne, la nuova formazione da febbraio riunitasi intorno a J. Lacan. Nessuno meglio di loro può dunque illustrarci l’attuale situazione della psicoanalisi, e a loro lascio la parola, ringraziandoli di aver accolto il nostro invito. L'esperienza di Ronald Laing e Aaron Esterson
Di David Shariatmadari "Sente il bisogno di essere d'accordo con quel che crede la maggior parte delle persone intorno a lei? " " Beh, se non lo facessi andrei a finire in ospedale. " Siamo a Londra, alla fine degli anni Cinquanta. Una donna, Ruth, si trova di fronte un medico scozzese, nel suo studio. Sulla scrivania gira lentamente il nastro di un registratore. La donna parla con aria di pacata sconfitta, avendo già avuto la brutta notizia, la diagnosi. È stata sempre la stessa, per molto tempo: schizofrenia. Per lei ospedale significa un regime di neurolettici, farmaci psicotropi, tranquillanti, forse significa anche andare ripetutamente in un coma indotto da insulina. Il dottore, per quanto empatizzi, non offre nessuna cura. Sta semplicemente conducendo una ricerca. Sebbene sia psichiatra non crede al modello medico della malattia mentale: capisce che la schizofrenia non è come il diabete o il cancro. Si tratta di una categoria diagnostica abbastanza recente, e capita spesso che gli psichiatri non siano d'accordo nel definire quale dei loro pazienti potrebbe essere schizofrenico. Non esiste infatti un test di laboratorio in grado di determinare chi è affetto dalla malattia e chi no. La maggior parte dei medici considera la schizofrenia come un funzionamento distorto della personalità, una cosa senza né capo né coda. Questo psichiatra, il dottor Ronald David Laing, pensa invece di poter capire anche le pazzie più stravaganti, e considera che siano leggibili. Ritiene che una diagnosi di schizofrenia vada vista come un fenomeno sociale piuttosto che medico. “La normalità, la follia e la famiglia”, riferisce undici interviste con schizofrenici e con i loro familiari, ed è un tentativo da parte sua e del suo collega Aaron Esterson di mostrare senza ombra di dubbio la comprensibilità della schizofrenia. La maggior parte dell'apparato istituzionale contro il quale Laing e Esterson rivolgono i loro strali era ancora intatto quando i miei genitori si sono formati come psichiatri un decennio più tardi. È durato fino agli anni Ottanta, quando mio padre mi portava all’ospedale psichiatrico vittoriano, dove ha lavorato restando seduto nel suo ufficio e facendosi assillare dalle infermiere. Dalla finestra vedevo nel cortile la cappella – usata per solo i funerali, mai per battesimi o matrimoni. Per molti, il cerchio della vita si concludeva qui. A quel tempo però si cominciarono a chiudere gli ospedali di lunga degenza, e i pazienti, spaventati, si chiedevano come diavolo avrebbero potuto vivere senza l'abbraccio soffocante in cui erano stati tenuti per venti, trenta a volte quarant’anni. Erano poi entrati in scena gli psicologi, dando modo agli infermieri di mettere in discussione figure professionali fino ad allora considerate inattaccabili . Incurante di questi cambiamenti, volevo semplicemente sapere perché la gente impazziva. Perché vedeva cose che non esistono, perché sentiva voci che non ci sono, perché pensava di essere Dio. Tutto questo aveva quasi un'aria soprannaturale, come se i pazienti che avevo intravisto nella sala comune, con lo sguardo perso nel vuoto, fissando il nulla mentre passava il carrello del tè, fossero posseduti, o fantasmi loro stessi. Nessuno mi poteva dare una risposta soddisfacente. Così, quando ho trovato “L’io diviso” di Laing, non negli scaffali dei miei genitori, ma in quelli della mia prima padrona di casa a Londra, mi sono accorto che non riuscivo più a metterlo giù. Qui c’era qualcuno che stava spiegando la follia, che stava mostrando come la frammentazione della persona fosse una risposta comprensibile a una pressione intollerabile, il più delle volte la pressione del famigerato doppio legame. I meccanismi del doppio legame sono meglio esplicitati da esempi tratti dal mondo reale, di cui “La normalità, la follia e la famiglia” costituisce un compendio. Prende la filosofia de “L’io diviso” e la rende concreta. Per alcuni mesi Laing e Esterson hanno intervistato uno per uno gli undici pazienti, i loro genitori e i loro fratelli, sia presi individualmente, sia a coppie, sia come gruppi. Il loro obiettivo era di avere un chiaro quadro del funzionamento della famiglia, e di scoprire se la follia del soggetto avesse un senso in quel contesto. Leggere le trascrizioni è stato per me come avere accesso ad appunti di casi rinchiusi negli archivi ospedalieri. Era una sorta di voyeurismo, ma disperatamente triste. C'era Maya, i cui genitori interpretavano ogni espressione d’autonomia come "non essere se stessa" e quindi come parte della sua malattia. Ogni pensiero o azione indipendenti erano etichettati come "essere difficile". Nel corso delle interviste si scopre che i genitori di Maya credono che lei abbia un sesto senso e sia in grado di leggere i loro pensieri. Furtivamente cercano di verificare questa teoria, scambiandosi ammiccamenti e sorrisi d’intesa. Interrogati da Maya negano di aver fatto tali gesti. Si tratta di una "mistificazione": le dicono che quel che ha percepito non si è affatto verificato. Viene abituata a "diffidare la propria sfiducia", e questo cosa altro è se non un invito alla paranoia? "Non siamo stati in grado di trovare uno spazio nella personalità di Maya che non fosse stato negato in molti modi", affermano gli autori. Il modello di mistificazione, invalidazione e doppio legame si ripete con Lucie, Claire, Sarah, Ruth e tutti gli altri, ognuno dei quali viene ripreso come se nulla di ciò che può dire o fare sia giusto. Laing è diventato il famigerato psichiatra che ha dato la colpa della schizofrenia alle famiglie. Ma chi lo rifiuta su questo presupposti deve chiedersi se possa mai essere fatto un qualsiasi tentativo di comprendere lo stato mentale di una persona senza riferirsi alle relazioni più intime. La più recente ricerca sui correlati neurologici della schizofrenia non contrasta con la tesi di Laing che questa diagnosi, ancora inaffidabile, possa essere meglio compresa prendendo in considerazione il contesto sociale. Le sue idee inoltre non escludono la possibilità di una predisposizione innata alla psicosi. Come accade per molti pensatori il cui lavoro è oggi un po’ trattato con sdegno, diversi aspetti del suo approccio sono stati tuttavia assorbiti nella corrente di riflessione principale. La psichiatria viene oggi praticata in modo più umano che non trenta o quarant’anni fa. Il modello medico, anche se sostenuto a fini di lucro dall’industria sanitaria, che incentiva le diagnosi troppo nette e il trattamento farmacologico, non dice più l'ultima parola. Ho anche imparato che, per quanto disperati potessero essere, non c'era nulla di inquietante nei pazienti ricoverati all'ospedale di mio padre. Non erano maledetti, o posseduti, come mi avevano fatto credere la mia fantasia infantile, e come aveva sostenuto la società per centinaia di anni. Il lavoro di Laing sulla follia vista in contesto può essere considerato come l'ultimo chiodo nella bara per la visione demoniaca della malattia mentale. Ma dovrebbe servire anche da monito costante per quanti sono tentati dall'idea, altrettanto ingenua, di sostenere che la follia è solo un capriccio della doppia elica. Fonte: The Guardian , Domenica 25 Agosto 2013 Gli psichiatri sostengono che il tasso di suicidi è aumentato dall'inizio della crisi finanziaria
di Stephen Burgen Le chiamate all'equivalente spagnolo del Telefono Amico da parte di persone che dicono di pensare al suicidio sono cresciute del 30 % arrivando al numero di 1.567 nel 2012, secondo quanto afferma il servizio di assistenza locale. Dal 2008 il suicidio è la più comune causa di morte in Spagna, accanto alle cause naturali . L'organizzazione ha detto che il 74% degli aspiranti suicidi non aveva una relazione affettiva, il che indica "un chiaro rapporto tra la solitudine e il suicidio ". Il 45,9% dei chiamanti era single e il 23,8 % era separato o divorziato, mentre il 4,3% era in stato di vedovanza. "Credo che la tendenza al suicidio sia sotto-diagnosticata e che non sia trattata adeguatamente, perché i problemi mentali stanno aumentando sempre più. In una società del benessere le persone hanno molte più difficoltà a sopportare il fallimento e hanno meno capacità di reagire alla sofferenza", ha dichiarato all'agenzia di stampa EFE José Giner, professore di psichiatra all'Università di Siviglia. Ginber ha detto inoltre che dall'inizio della crisi finanziariail tasso di suicidi è aumentato da sei a otto ogni 100.000 persone. Ci sono molti suicidi tra i giovani, che sono stati duramente colpiti dalla crisi: il 56% di loro ha meno di venticinque anni ed è senza lavoro. "Tra i giovani troviamo un senso di disperazione non solo a causa della crisi, ma a per via di un vuoto esistenziale", ha affermato Alfonso Echávarri della Navarra helpline. "Non possiamo dire che il tasso di suicidi sia cresciuto specificamente a causa della crisi, ma un numero sempre maggiore di persone che chiama sostiene di avere problemi finanziari, depressione e ansia." Si uccidono nove spagnoli ogni giorno, e per ogni suicidio riuscito ci sono venti tentativi falliti. Nel 2010 i suicidi sono stati 3.145, un numero che supera quello delle vittime di incidenti stradali. Gli ultimi anni hanno visto un aumento del numero di persone che si uccidono dopo aver recuperato le case che erano loro state sequestrate dalle banche. Secondo la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Piattaforma per le vittime dei sequestri immobiliari) ci sono stati 400.000 sfratti da quando è iniziata la crisi finanziaria nel 2007. L'anno scorso, in risposta all'aumento dei suicidi, l'Associazione spagnola delle banche ha comunicato l'intenzione di congelare gli sfratti in casi di estrema difficoltà. Alle famiglie con un reddito complessivo inferiore a €1.597 è stata quindi offerta una moratoria di due anni. Secondo l' Organizzazione Mondiale della Sanità il suicidio è la principale causa di morte violenta nel mondo. Il numero di suicidi nel mondo supera, secondo l' OMS, quello degli omicidi e delle morti in guerra messi insieme. Si tolgono la vita un milione di persone ogni anno, uno ogni 40 secondi. Dei dieci paesi con il più alto tasso di suicidi nove si trovano in Europa. fonte: The Guardian, 5 settembre 2013 Di Leaf vav Boven, Charles M. Judo e Mark Travers
La rivelazione che la National Security Agency ha segretamente raccolto enormi quantità di dati dai cellulari americani e dall'uso di Internet ha scatenato un vivace dibattito sul ruolo delle informazioni riservate in una società libera e aperta. Il punto cruciale del dibattito è se il valore delle informazioni riservate giustifichi il sacrificio della privacy. L’idea è che se le informazioni riservate offrono ai servizi elementi preziosi utili per proteggere gli americani, può valere la pena sacrificare la privacy per la sicurezza. C'è però un grosso problema nel valutare le informazioni etichettate come "riservate": le persone tendono ad accrescere il valore delle informazioni "riservate", semplicemente perché sono segrete. In una recente serie di studi, che presenteremo in un prossimo numero del giornale sulla psicologia politica, abbiamo dimostrato che le persone applicano "l’euristica della segretezza" – così chiamiamo una regola empirica per valutare la segretezza – quando si tratta d’informazioni relative alla sicurezza nazionale. Le stesse informazioni vengono cioè considerate più precise, affidabili e di qualità superiore, quando sono etichettate come segrete anziché come pubbliche. E si tende a pensare che le decisioni sulla sicurezza nazionale sono più sagge e meglio fondate, quando si basano su informazioni segrete anziché pubbliche. In un esperimento abbiamo fatto leggere a due soggetti due documenti politici del governo risalenti al 1995. Uno era del Dipartimento di Stato e l'altro dal Consiglio di sicurezza nazionale. Riguardavano l’intervento degli Stati Uniti per fermare la vendita di aerei da combattimento a paesi stranieri. I documenti, entrambi autentici e ottenuti grazie al Freedom of Information Act, argomentavano il problema in modo diverso. In modo casuale, uno è stato definito dagli sperimentatori come riservato, l'altro come pubblico. La maggior parte delle persone che hanno partecipato all’esperimento hanno considerato che documento che veniva loro presentato come "riservato" contenesse informazioni più accurate e meglio motivate rispetto al documento presentato come pubblico. In un altro esperimento, veniva fatto leggere un’autentica memoria governativa del 1978 scritta dai membri del Consiglio di Sicurezza Nazionale sulla vendita di aerei da combattimento a Taiwan, spiegando che il Consiglio aveva utilizzato le informazioni per prendere decisioni politiche. Anche in questo caso, in modo casuale, ad alcuni è stato detto che il documento era rimasto segreto e ad uso esclusivo del Consiglio, e che era stato recentemente reso pubblico grazie al Freedom of Information Act. Ad altri è stato detto che il documento era sempre stato pubblico. Come ci aspettavamo, quanti credevano segrete le informazioni hanno ritenuto il documento più utile, più importante e preciso di coloro che credevano fossero pubbliche. E hanno giudicato le azioni del Consiglio di Sicurezza Nazionale, intraprese in base alle informazioni, come più prudenti e sagge quando si credeva che il documento fosse segreto. Sono molte le ragioni per cui la gente potrebbe dare maggior valore alle informazioni segrete. Naturalmente a volte le informazioni segrete sono veramente di qualità superiore e offrono un reale vantaggio strategico rispetto alle informazioni pubbliche. In base a quest’idea, le persone possono generalizzare l'associazione tra la segretezza e la qualità estendendola a contesti in cui è ingiustificata. Certo i governi si comportano come se il segreto fosse di particolare valore, investendo risorse enormi per raccogliere, analizzare e utilizzare informazioni riservate. Se un’informazione è segreta, si pensa, è perché dev’essere un dato particolarmente sensibile e rilevante. Naturalmente, fuori dal laboratorio di psicologia, non si ha il vantaggio di confrontare direttamente informazioni segrete e pubbliche, per cui si deve prendere per vero quel che dicono i funzionari del governo sul valore di segreti. In altre parole, si applica l’euristica della segretezza, supponendo che la decisione del governo di classificare come segrete certe informazioni sia corretta, e non solo un esempio di eccesso burocratico o di allergia alla trasparenza pubblica. Il nostro studio contribuisce a spiegare il sostegno del pubblico alla raccolta d’informazioni riservate da parte del governo. Un recente sondaggio del Pew Research Center for the People and the Press ha riferito che la maggioranza degli americani riteneva accettabile che la NSA spiasse l'attività telefonica degli americani per indagare sul terrorismo. Alcuni commentatori delusi ne hanno concluso che gli americani hanno meno considerazione per la propria riservatezza di quanto dovrebbero. Ma la nostra ricerca suggerisce un'altra conclusione possibile: la stessa natura segreta del programma della NSA può aver indotto il pubblico a considerare preziose le informazioni raccolte, senza esaminare di cosa si tratta o senza considerare come potrebbero essere utilizzate. Questo ovviamente non è meno inquietante. Se la gente esagera il valore delle informazioni segrete, può facilmente cedere sulla privacy nell'interesse della sicurezza nazionale, anche se considera la privacy importante. Per valutare se la raccolta segreta di dati personali valga quel che costa, sarebbe bene considerare quanto spesso ci si basa sull’euristica della segretezza, ed essere più scettici sulle affermazioni del governo intorno alle informazioni classificate come segrete. La considerazione della privacy può dipendere da questo. Leaf Van Boven e Charles M. Judd sono professori di psicologia e neuroscienze presso l'Università del Colorado, Boulder, dove Mark Travers è dottorando. Il professor Van Boven è anche direttore del Center for Research on Judgment and Policy Fonte: New York Times del 30. 06. 2013 di Benedict Carey
Un conto smarrito della carta di credito o un solo messaggio di posta elettronica rimasto sul computer di casa sarebbero stati la fine di tutto: il matrimonio, la prestigiosa carriera, la buona reputazione che si era fatto durante la vita. Per più di dieci anni ha pervicacemente mantenuto due identità separate: una viveva in un piccolo villaggio di Westchester e lavorava in un ufficio di New York, l'altra circolava principalmente nei club, nei bar e nei bordelli. Una accoglieva calorosamente i clienti e salutava i vicini, a volte solo poche ore dopo che l'altra era tornata da una riunione di "lavoro" con prostitute o spacciatori di cocaina. Alla fine, è stato l‘innocuo annuncio pubblicitario di un software per la sicurezza, comparso nel computer, dove si diceva che la sua vita online veniva "continuamente monitorata," a mandare nel panico questo agente immobiliare di New York e a far sì che cercasse l’aiuto di un terapeuta. La doppia vita di quest'uomo è un esempio estremo di come l'angoscia possa mandare a pezzi un’identità, ha detto il suo psichiatra, il dottor Jay S. Kwawer, direttore per la formazione clinica presso il White Institute di New York, che ha recentemente discusso il caso in una conferenza. Gli psicologi sostengono però che la maggior parte degli adulti normali può benissimo iniziare una vita segreta, e continuarla. La capacità di mantenere un segreto è fondamentale per uno sviluppo sociale sano, dicono, e il desiderio di provare altre identità – di reinventarsi, di fingere – può durare fin’anche in età adulta. E negli ultimi anni, i ricercatori hanno scoperto che alcune delle competenze psicologiche necessarie a evitare il disagio mentale solo le stesse che possono indurre un alto rischio di prolungate attività segrete. "In un senso davvero profondo, non si ha un sé se non si dispone di un segreto, e per tutti noi ci sono momenti nella vita in cui sentiamo che stiamo smarrendo il senso di noi stessi nel gruppo sociale a cui apparteniamo, o nel lavoro o nel matrimonio, e ci si sembra di doverci aggrappare a un segreto, o inventare qualche sotterfugio, per riaffermare la nostra identità individuale", ha detto il dottor Daniel M. Wegner, professore di psicologia ad Harvard. Ha aggiunto: "E ora stiamo imparando che alcuni riescono a farlo meglio di altri." Le vite segrete meglio conosciute sono tuttavia le più spettacolari: l'architetto Louis Kahn ha avuto tre vite; Charles Lindbergh si dice ne abbia avuto due. Questi sono esempi macroscopici di un comportamento molto più comune e variato, dicono gli psicologi. Alcuni puntano sui farmaci. Altri provano con lezioni di musica. Altri ancora entrano in un gruppo religioso. Tutti tengono la bocca chiusa per motivi diversi. Ci sono poi migliaia di persone – uomini e donne omosessuali che rimangono in matrimoni eterosessuali, per esempio – per i quali l’imbarazzo o la negazione dei loro bisogni elementari li ha portati a compiere escursioni segrete in altri mondi. Se una vita segreta è in ultima istanza distruttiva, ritengono gli esperti, tutto dipende però dalla natura del segreto e dalla maschera psicologica che l'individuo indossa. Gli psicologi hanno a lungo considerato la possibilità di tenere segreti come determinante ai fini un sano sviluppo. Bambini di sei o sette anni già imparano a non rivelare il regalo di compleanno per la madre. In adolescenza e in età adulta, una certa disinvoltura con alcune piccole bugie sociali è collegata a una buona salute mentale. I ricercatori hanno anche confermato che il segreto può accrescere l'attrattiva o, come ha detto Oscar Wilde: "La cosa più comune diventa deliziosa se solo la si nasconde." In uno studio, alcuni uomini e donne del Texas hanno riferito che le relazioni del loro passato alle quali hanno continuato a pensare più a lungo il più delle volte erano quelle rimaste segrete. In un altro studio, gli psicologi di Harvard hanno scoperto che potevano accrescere l'attrazione tra sconosciuti, uomini e donne, semplicemente incoraggiandoli a giocare a piedino in un esperimento di laboratorio. Il desiderio di recitare il ruolo di un personaggio completamente diverso è ampiamente condiviso tra le culture, dicono gli esperti di studi sociali, e può essere motivatoda curiosità, malizia, o autentica ricerca di se stessi. Certo, si tratta di uno strappo alla regola comune a quasi tutti coloro che sono usciti della quotidianità per un periodo, per vacanza, per lavoro o per vivere in un altro paese. "Di solito si andava via per l'estate e si diventava qualcun altro, si andava in campeggio e si diventava qualcun altro, o forse si andava in Europa per diventare qualcun altro" in un sano spirito di sperimentazione, ha detto la dottoressa Sherry Turkle, sociologa presso il Massachusetts Institute of Technology. Ora, ha aggiunto, le gente prende abitualmente diversi pseudonimi su Internet, senza mai muoversi da casa: l’impiegato della porta accanto potrebbe firmarsi come bill@aol.com, ma anche entrare in una chat come Armaniguy, Cool Breeze o Thunderboy. Recentemente, la dottoressa Turkle ha studiato l'uso di giochi online interattivi come Sims Online, dove le persone formano famiglie o comunità. Ha accuratamente intervistato circa duecento giocatori abituali o occasionali, e sostiene che molti usano il gioco come un modo per creare le famiglie che vorrebbero avere, o per impostare versioni alternative della propria vita. Una sedicenne che vive con un padre violento ha simulato la sua relazione con lui in The Sims Online, trasformandosi, in varie occasioni e tra altre identità, ora in un ragazzo sedicenne, ora in una ragazza più grande e più forte, con una personalità più decisa. È stato attraverso l’identità di figlia più forte, ha detto la dottoressa Turkle, che la ragazza si è resa conto che poteva perdonare il padre, se non poteva cambiarlo. "Penso che quel che le persone stanno facendo ora su Internet", ha aggiunto "abbia un profondo significato psicologico per il modo in cui stanno usando le identità. Questo permette loro infatti di esprimere problemi e potenzialmente risolverli in uno spazio relativamente senza conseguenze." Nel mondo, tuttavia, che è uno spazio denso di conseguenze, gli studi trovano che la maggior parte delle persone considera estenuante mantenere a lungo già solo alcuni segreti brucianti, che sono molto meno di un’intera vita segreta. Il fatto stesso di sopprimere l'informazione crea una sorta di effetto di rimbalzo, e il pensiero di una relazione nascosta, di intemperanze notturne, o di un debito occulto invadono la coscienza, soprattutto quando la persona che sarebbe ferita dalla rivelazione del segreto è affettivamente vicina. Come un set televisivo in un bar affollato, l'episodio nascosto sembra fare intrusione nella mente, attirando l'attenzione nonostante gli sforzi coscienti di distogliersene. I pensieri scacciati tornano anche nei sogni, secondo quanto asserisce uno studio pubblicato la scorsa estate. La forza di quest’effetto sicuramente varia da persona a persona, dicono gli psichiatri. Sono rari i casi di persone patologicamente senza rimorsi, che non si preoccupano o neppure percepiscono il potenziale impatto di un segreto sugli altri, e quindi non sentono la tensione di mantenerlo. Quanti poi sono pagati per vivere vite segrete, come gli agenti segreti, sanno almeno in che cosa si sono impegnati, e hanno linee guida chiare che dicono loro quel che possono rivelare e a chi. In una serie di esperimenti condotti negli ultimi dieci anni però, gli psicologi hanno individuato un gruppo più ampio che hanno battezzato “repressori”, riguardante circa il dieci, quindici per cento della popolazione, formato da persone inclini a ignorare o sopprimere le informazioni per loro imbarazzanti, e che sono quindi particolarmente dotate per mantenere i segreti. I repressori ricevono un punteggio basso nei questionari che misurano l'ansia e la difesa, e pare, per esempio, che raramente provino risentimento, siano preoccupati per i soldi, o turbati da incubi e da mal di testa. Hanno una buona opinione di di sé e non se la prendono per le minuzie. Anche se poco si sa sullo sviluppo mentale di queste persone, alcuni psicologi ritengono che abbiano imparato a bloccare i pensieri angoscianti distraendosi con bei ricordi. Con il tempo, con la pratica, in effetti, questo può diventare un’abitudine, e attenuare la loro possibilità di accedere ai ricordi e segreti potenzialmente umilianti o minacciosi. "Questa capacità verosimilmente è utile nella lotta quotidiana per evitare pensieri indesiderati di qualunque tipo, compresi quelli derivanti dal tentativo di sopprimere segreti in presenza di altri," ha detto il dott. Wegner, di Harvard, in un messaggio di posta elettronica. Quanto più è facile mettere a tacere questi pensieri, tanto più a lungo può continuare l'attività occulta, e tanto più difficile potrebbe essere confessarla in seguito. In alcuni casi, forze molto potenti sono all’opera nel dar forma alle vite segrete. Molti omosessuali e molte lesbiche si sposano con partner eterosessuali prima di lasciar emergere la loro identità sessuale, o malgrado questa. L'obiettivo è di compiacere i genitori, di nascondere loro quel che è sentito come una vergogna o di rendersi più accettabili a se stessi e alla società in generale, ha detto il dottor Richard A. Isaj, psichiatra presso la Cornell University, che ha in terapia molti omosessuali non dichiarati. Spesso, ha detto, queste persone lottano per non mettere in atto i loro desideri, e cominciano una vita segreta per disperazione. Questo alla fine li costringe a decisioni strazianti su come vivere con, o separarsi da, famiglie che amano. "So di non aver seguito l'orientamento che sento mio, e so di essere sempre stato come sono" ha scritto un uomo in una lettera pubblicata nel libro del dr. Isaj "Diventare omosessuale". "So che diventa più difficile vivere nel guscio solitario in cui sono ora, ma non riesco a vedere nessuna via d'uscita." Fino a che l'esposizione di una vita segreta distruggerà o avvelenerà per sempre quella pubblica, le persone devono o chiarirsi e scegliere, o rischiare il crollo mentale, dicono molti terapeuti. Il dr. Seth M. Aronson, assistente di psichiatria al Mount Sinai School of Medicine, ha trattato un pediatra con un figlio piccolo e una moglie, che di notte usciva furtivamente per andare nei bar, frequentando prostitute e a volta anche ingaggiando risse con i loro protettori. In una seduta, l'uomo era arrivato talmente ubriaco che svenne, in un altra si era portato una prostituta. "Era una di quelle classiche divisioni in cui la moglie era perfetta e meravigliosa, ma lui sentiva il bisogno di degradarsi con queste altre donne", e le due vite non potevano coesistere a lungo, ha affermato il dott. Aronson. In un famoso testo, pubblicato nel 1960, sul problema della doppia vita, l'analista inglese dr. Donald W. Winnicott sosteneva che un falso sé emerge in particolare nei nuclei familiari dove i bambini vengono educati in modo da essere sempre sintonizzati con le aspettative degli altri, diventando così sordi alle proprie aspettative e necessità. "In effetti, seppelliscono viva una parte di se stessi", ha asserito il dottor Kwawer dello White Institute. Il pediatra trattato dal dott. Aronson, per esempio, è cresciuto in una famiglia cristiana fondamentalista dove la madre, spesso e con disapprovazione, lo ha paragonato allo zio, che era un ladro e un bevitore. Il paziente del dottor Kwawer, l’agente immobiliare, ha avuto genitori che si accigliavano di fronte a quasi ogni espressione di desiderio, e avevano impresso nel figlio un forte senso di difesa dell'immagine della famiglia. Si sposò giovane, in parte per compiacere i suoi genitori. Entrambe queste persone sono ancora in psicoterapia, ma ora vivono una sola vita, dicono i loro terapeuti. Il pediatra ha ridotto le proprie attività extraconiugali, è tornato mentalmente a casa e ha confessato alla moglie alcuni dei suoi problemi. L’agente immobiliare si è separato dalla moglie, ma vive vicino a lei e l’aiuta con i bambini. La separazione ha provocato in entrambi un periodo di depressione, ha detto il dottor Kwawer, ma ora l'uomo ha ritrovato nuova energia per il lavoro, e si è riavvicinato agli amici e ai figli. Ha smesso con gli appuntamenti segreti e con l’uso di droga, e sente di riavere la propria vita. "Contrariamente a quanto molti pensano", ha detto il dottor Kwawer, "spesso una vita segreta può portare in luce un aspetto più vivace, più intimo, più eccitante di sé". Fonte: New York Times, 11 gennaio 2005 di Daniel Sillitti
Potremmo dire che l'uso di droghe è un sintomo. Notiamo però alcune differenze. In primo luogo, non è il consumo a portare qualcuno a chiedere aiuto psicoterapeutico, ma il fallimento di quel che si otteneva con il consumo. In secondo luogo il sintomo si presenta al soggetto come enigmatico, e questo lo fa soffrire. Non sa a cosa corrisponda il suo sintomo, non riesce a capire la causa di quel che lo mette fuori fase. Il sintomo racchiude un godimento sconosciuto al soggetto. Con la droga invece, non è chiaro chi sia il soggetto che si rende conto che qualcosa non va. Di solito è un’idea che proviene da altro. Le cose non vanno, ma per l'altro. Forse potremmo dedurne che il tossicodipendente stesso è un sintomo, è lui la presenza di un disagio, la sua impronta lascia intravedere il disagio della civiltà. Se si può dire che il tossicodipendente è un sintomo, non è lo stesso per il consumo di sostanze, dato che non si interroga sul consumo, e non si interroga perché per lui su questo non vi è nessun enigma. C’è piuttosto una certezza, la certezza di un godimento che, lungi dall'essere sconosciuto, si presenta come quel che vi è di più sicuro. Bisogna notare che il fallimento della droga è ciò che apre la possibilità che tra le pieghe di ciò di cui si gode, sorga il soggetto, e quindi la possibilità di un'analisi. Si apra cioè quella mancanza d’essere che la droga come oggetto può otturare la maggior parte delle volte in modo efficace. Fonte: Daniel Sillitti, Ernesto Sinatra y Mauricio Tarrab. La droga: ¿objeto? , perteneciente al libro “Más allá de las Drogas”. 2000. Serie: Sujeto, goce y modernidad. Editorial Plural-La Paz-Bolivia. P.p 116. Randall C. Wyatt: Le porrò diverse questioni, data la varietà dei suoi interessi, e vorrei anche dedicare attenzione al suo lavoro come psicoterapeuta. Facciamo prima un po’ di storia. Lei è diventato famoso con il libro Il mito della malattia mentale. Riesce, in meno di mille parole, a dirmi cosa significa?
Thomas Szasz: Il mito della malattia mentale significa che la malattia mentale in quanto tale non esiste. Il concetto scientifico di malattia si riferisce a una lesione fisica, cioè a un’anomalia materiale – strutturale o funzionale – del corpo preso come una macchina. Questa è la classica definizione di Virchow di una malattia patologica, ed è la definizione di malattia ancora utilizzata dai patologi e dai medici che lavorano come terapeuti in modo scientifico. Il cervello è un organo – come le ossa, il fegato, il rene, e altri – e naturalmente può ammalarsi. Questo è il campo della neurologia. Poiché la mente non è invece un organo corporeo, non può ammalarsi, se non in senso metaforico, nel senso in cui diciamo anche che una battuta fa morire o che l'economia è malata. Questi sono modi metaforici per dire che un comportamento o una condizione sono cattivi, disapprovati, causa d’infelicità, e così via. Detto altrimenti, parlare di "menti malate" è come parlare di "battute infelici" o di "economie malate." Nel caso della malattia mentale si tratta di un modo metaforico per esprimere l'opinione di chi parla quando pensa ci sia qualcosa di sbagliato nel comportamento della persona a cui attribuisce la "malattia". In breve, come non c'erano streghe, ma solo donne disapprovate chiamate "streghe", nello stesso modo non ci sono malattie mentali, ma solo comportamenti che gli psichiatri disapprovano e che chiamano "malattie mentali". Prendiamo una persona che ha paura di uscire. Gli psichiatri chiamano il suo comportamento "agorafobia" e sostengono si tratti di una malattia. Oppure, una persona ha idee o percezioni strane, e gli psichiatri dicono che ha "deliri" o "allucinazioni". O ancora ci può essere qualcuno che fa uso di droghe illegali o che fa una strage. Sono tutti esempi di comportamenti, non di malattie. Quasi tutto quel che dico sulla psichiatria, segue da questo assunto. RW: Diciamo che la scienza moderna, con tutti i progressi della genetica e della biochimica, ha scoperto alcuni correlati tra i comportamenti e le carenze o gli squilibri biologici, o ancora i difetti genetici. Potremmo affermare che le persone che presentano allucinazioni o che sono deliranti hanno dei deficit biologici. Che cosa ne è con questo delle le sue idee? TS: Un tale sviluppo andrebbe nel senso di convalidare le mie opinioni, non di smentirle, come pensano i miei critici. Ovviamente, non nego l'esistenza di malattie del cervello, al contrario, quel che voglio dire è che se le malattie mentali fossero malattie del cervello, dovremmo chiamarle malattie del cervello e trattarle come malattie del cervello, e non chiamarle malattie mentali e trattarle come tali. Nel XIX° secolo i manicomi erano pieni di pazzi; più della metà di loro, come si è scoperto poi, aveva qualche malattia del cervello, soprattutto neurosifilide, o lesioni cerebrali, intossicazioni o infezioni. Una volta che si lo è capito, la neurosifilide ha cessato di essere una malattia mentale, ed è diventata una malattia del cervello. La stessa cosa è successa con l'epilessia. RW: È interessante, perché molti miei studenti e colleghi, che hanno letto il suoi lavori o che hanno sentito parlare delle sue idee, pensano che quando la condizione precedentemente considerata mentale si rivela una malattia del cervello, come è stato notato, le sue idee diventano discutibili. TS: È perché non hanno familiarità con la storia della psichiatria, non capiscono che cosa sia una metafora, e non vogliono vedere come e perché vengono formulate le diagnosi psichiatriche e come vengono attribuite alle persone. Ted Kaczynski, il cosiddetto Unabomber, è stato diagnosticato come schizofrenico da psichiatri nominati dal governo. Se si vuole credere che un difetto genetico induca una persona a commettere una serie di delitti concepiti in modo così geniale, e che invece quando qualcuno compone una magnifica sinfonia, questo sia dovuto al suo talento e alla sua libera volontà – ebbene così sia. I test medici oggettivi misurano cambiamenti chimici e fisici nei tessuti, non valutano né giudicare le idee o i comportamenti. Prima che esistessero test diagnostici sofisticati, per i medici era difficile distinguere tra la vera epilessia – vale a dire convulsioni neurologiche – e ciò che chiamiamo crisi isteriche, che sono semplicemente simulazioni dell’epilessia che imitano una crisi convulsiva. Quando si è capito che l'epilessia era provocata da un aumento dell’eccitabilità di alcune aree del cervello, non è più stata considerata una psicopatologia o una malattia mentale, ed è diventata una neuropatologia o una malattia del cervello. Diventa allora pertinenza della neurologia. L’epilessia esiste ancora. La neurosifilide, anche se molto rara, esiste ancora, e non è trattata dagli psichiatri, ma dagli specialisti in malattie infettive, perché è un’infezione del cervello. Se scoprissimo che tutte le malattie mentali sono malattie del cervello, questo significherebbe la scomparsa della psichiatria, che verrebbe riassorbita nella neurologia. Ma significherebbe anche che una condizione sarebbe considerata come malattia mentale solo se si potesse dimostrare, con prove oggettive, che una persona ce l’ha, o non ce l'ha. Si può dimostrare – oggettivamente, non facendo una diagnosi basata su un colloquio – che X ha la neurosifilide o non ce l’ha, ma non si può dimostrare oggettivamente che X ha o non ha la schizofrenia o la depressione clinica, o un disturbo post-traumatico da stress. Come la maggior parte dei sostantivi e dei verbi, la parola "malattia", sarà sempre utilizzata sia in senso letterale sia metaforico. Finché gli psichiatri non saranno disposti a fissare il significato letterale di malattia mentale in uno standard oggettivo, non ci sarà modo di distinguere tra il significato letterale e quello metaforico dell’espressione "malattie mentali". RW: Gli psichiatri, ovviamente, non vogliono essere messi fuori dal gioco. Vogliono tenere sulla schizofrenia quanto più a lungo possibile, e ora si aggiungono la depressione, il gioco d'azzardo, l'abuso di droga, e così via, che sono proposti come disturbi biologici o geneticamente determinati. Si crede che tutto debba avere un marcatore genetico, forse anche la normalità. Cosa ne pensa? TS: Non so proprio cosa dire di una simile sciocchezza. A meno che non s’intenda che la storia della psichiatria riguarda la semantica, è molto difficile venirne a capo. Le diagnosi non sono malattie. Punto. Gli psichiatri hanno definito alcune famose malattie per le quali non si sono mai scusati, le due più note sono la masturbazione e l’omosessualità. Le persone con queste cosiddette "malattie" sono state torturate dagli psichiatri per centinaia d’anni. I bambini sono stati torturati dai trattamenti contro la masturbazione. Gli omosessuali sono stati incarcerati e torturati dagli psichiatri. Ora tutto ciò viene opportunamente dimenticato, mentre gli psichiatri – prostitute dell'etica dominante – inventano nuove malattie, come quelle che ha citato. La guerra alla droga è l'attuale pogrom psichiatrico-giudiziario. Lo stesso vale per la battaglia sui bambini chiamati "iperattivi", avvelenati nelle scuole con la droga di strada illegale chiamata "Speed", che, quando viene ribattezzata "Ritalin", è una cura miracolosa per loro. Vorrei citare un’altra caratteristica della psichiatria strettamente correlata a questa, e che la rende diversa dal resto della medicina. Solo in psichiatria ci sono pazienti che non vogliono essere pazienti. Questo è fondamentale, perché la mia critica alla psichiatria è duplice. Una delle mie critiche è concettuale: affermo cioè, che la malattia mentale non è una vera e propria malattia. L'altra è politica, perché sostengo che la malattia mentale è un pezzo di retorica che serve come giustificazione per legittimare l'impegno civile e la difesa della follia. Dermatologi, oculisti, ginecologi, non hanno pazienti che non vogliono essere loro pazienti. Ma i pazienti degli psichiatri lo sono contro la loro volontà per definizione. Originariamente, tutti i pazienti con disturbi mentali sono stati pazienti contro la loro volontà negli ospedali statali. Questo concetto, questo fenomeno, costituisce ancora il nucleo della psichiatria. Ed è quel che vi è di fondamentalmente sbagliato nella psichiatria. A mio avviso, il ricovero coatto e la difesa della follia dovrebbero essere aboliti, esattamente come lo fu la schiavitù, o la privazione dei diritti civili delle donne, o la persecuzione degli omosessuali. Solo allora potremmo cominciare a esaminare le cosiddette malattie mentali come forme di comportamento, similmente ad altri comportamenti. RW: Nei suoi lavori ha criticato i termini di ospedalizzazione obbligatoria e di psichiatria coercitiva. TS: Mi scusi, tutta la psichiatria è coercitiva, di fatto o potenzialmente, perché una volta che una persona entra in studio di uno psichiatra, in determinate condizioni, quello psichiatra ha legalmente il diritto e il dovere di affidarla in custodia. Lo psichiatra ha il dovere di prevenire il suicidio e l'omicidio. Il sacerdote che ascolta una confessione non ha gli stessi obblighi. L'avvocato e il giudice non hanno lo stesso dovere. Nessun'altra figura sociale ha lo stesso potere dello psichiatra. E questo è il potere di cui gli psichiatri devono essere privati, proprio come alcuni bianchi hanno dovuto essere privati del potere di schiavizzare i neri. I sacerdoti un tempo potevano avere clienti involontari. Ora chiamiamo questo fenomeno “conversione religiosa forzata” e “persecuzione religiosa”, ma a suo tempo veniva chiamato "pratica della vera fede" o "amore di Dio". Oggi abbiamo conversione psichiatrica forzata e persecuzione psichiatrica, e la chiamiamo "salute mentale" e "terapia". Sarebbe divertente se non fosse così grave. RW: La natura simbolica la sociologia della psichiatria sono coercitive. Eppure, non ogni atto è alla lettera coercitivo. Qualcuno va da un dottore e dice: "Non riesco a dormire. Sono depresso. Può darmi qualcosa che mi aiuti a dormire, o che mi aiuti a svegliarmi?" Questo è un libero scambio. TS: Sì è esatto. Ci sono scambi volontari con gli psichiatri, almeno in linea di principio. Mi piace dire che approvo con tutto il cuore gli atti psichiatrici tra adulti consenzienti. Ma questi atti, nella loro natura, sono pseudo-medici, perché il problema in esame non è di carattere medico, anche perché tale tipo di transazione trae vantaggio dalla criminalizzazione del libero mercato dei farmaci. Perché si deve andare da un medico per avere un sonnifero o un tranquillante? Un centinaio di anni fa, non ce n'era bisogno, bastava andare in un drugstore, o da Sears Roebuck*, e si potevano acquistare tutti i farmaci che si voleva: oppio, eroina, idrato di cloralio. In un certo qual modo, la professione psichiatrica vive del fatto che solo i medici ora possono prescrivere farmaci, e il governo ha fatto sì che la maggior parte dei farmaci che la gente vuole richieda una prescrizione. RW: Come nota a margine, non è interessante, e preoccupante, osservare che la maggior parte di quanti finiscono in prigione per abuso o per spaccio di droga sono neri o appartengono alle minoranze, e che invece quelli con licenza di prescrivere sono spesso non-minoranza, e nella società vengono considerati eroi essenzialmente perché vendono quel che a volte è la stessa merce, anche se, ovviamente, prescritta legalmente? TS: In effetti. Discuto in dettaglio questa nuova forma di schiavizzazione nera nel mio libro Il nostro diritto ai farmaci. Per via delle leggi vigenti, i medici prescrivono gli psicofarmaci che spesso i pazienti vogliono e chiedono: è una versione medicalizzata dello spaccio di droga. I medici hanno fatto la stessa cosa che si faceva con i liquori durante il proibizionismo, cosa che era abbastanza redditizia. RW: E ora la psichiatria e la farmacologia possono costituire un giro d’affari redditizio. TS: La psichiatria è un giro d’affari redditizio solo in quanto partecipa di questi due privilegi medico-psichiatrici, o di questi due monopoli: prescrizione di farmaci che solo i medici autorizzati possono dare, e creazione dei propri pazienti, cioè trasformazione delle persone in pazienti contro la loro volontà. È una cosa che possono fare solo gli psichiatri. RW: "Qual è la sua opinione sulla cura psichiatrica per chi soffre di schizofrenia"o di male di vivere, come lo chiama lei, o difficoltà interpersonali, o intrapsichiche. Comunque le si chiamino, le persone soffrono o sono turbate per ragioni interne o per ragioni interpersonali. Qual è la sua opinione sull'uso di droghe legali o illegali per aiutare le persone a far fronte a queste cose? TS: Sto sorridendo perché so che conosce le mie opinioni! Tuttavia non vorrei formulare così la questione. A mio parere, l’uso di farmaci è un diritto umano fondamentale, come all'uso di libri o la preghiera. La questione diventa quindi cosa una persona vuole e come può ottenerlo. Se qualcuno vuole un libro, può andare in un negozio e averlo, o scaricarlo su Internet. Un farmaco dovrebbe poterlo avere nello stesso modo. Se non sa cosa prendere, allora può andare da un medico o un da farmacista e chiedere a loro. E poi dovrebbe essere in grado di andare a comprarlo. RW: Questo porta l’argomento sui farmaci di prescrizione e sulle leggi, temi sui quali ha scritto ampiamente. TS: In effetti. Le leggi sulla prescrizione dei farmaci sono una nota a piè di pagina nella proibizione delle droghe. Le leggi sulla prescrizione dovrebbero essere abrogate. Tutte le leggi sui farmaci dovrebbero essere abrogate. La gente potrebbe poi decidere da sé ciò che l’aiuta in modo più efficace nell’alleviare le proprie afflizioni esistenziali, ammettendo che lo voglia fare con una droga o un farmaco: oppio o marijuana o sigarette o Haldol o Valium. Dopo tutto, l'unico arbitro di ciò che affligge una persona mentalmente e di ciò che lo fa sentire e funzionare meglio, è il paziente, perché è lui a definire cos’è meglio. Non abbiamo nessun test di laboratorio per le nevrosi e le psicosi. Per quanto riguarda l'insonnia, di solito si tratta di un lamento, di una comunicazione indiretta per ottenere sonniferi. Non si può andare da un medico e dirgli: “Ti prego dammi la prescrizione per un barbiturico”. Chi lo facesse verrebbe diagnosticato e denunciato come tossicodipendente. Così si deve dire: "Non riesco a dormire." Come fa il medico a sapere se è vero? RW: Gli chiedi quante ore dorme, e lui dice due ore a notte. TS: Come può il medico sapere se è vero? Il termine "insonnia" può funzionare come una menzogna strategica che il paziente deve dire per ottenere la prescrizione che vuole. RW: Lei sembra avere una visione del modello medico della medicina diversa rispetto al modello medico della psichiatria. TS: Sì, moltissimo. Non parliamo del modello medico della medicina in medicina o del modello medico della polmonite. Non ci sono altri modelli. Non parliamo, per esempio, di modello elettrico del perché una lampadina si accende. Il linguaggio è molto importante. Se qualcuno dice: "Sono contro il modello medico della malattia mentale", ciò implica che la malattia mentale esiste, e che c'è n’è qualche altro modello oltre a quello medico. Ma non vi è alcuna malattia mentale. Per questo non è necessario nessun modello. La questione importante non è il modello medico, termine malamente abusato, il problema è il modello pediatrico, il modello dell’irresponsabilità, il fatto di trattare le persone etichettandole come malati mentali, come se fossero bambini piccoli e come se lo psichiatra fosse il loro genitore. I pilastri della psichiatria sono coercizioni e scuse razionalizzate dal punto di vista medico e legittimate dal punto di vista giuridico. RW: Se lei scegliesse di usare il termine “malattia mentale” come una metafora, o come uno pseudonimo, dove malattia significasse "disagio," indicando le persone che sono soggettivamente in difficoltà, assumendo il modello psicosociale della malattia mentale? Se sostituisse “malattia mentale” con "problemi emotivi"? TS: No. Non funzionerebbe. Quasi tutto può essere causa di problemi emotivi: essere nero, o essere poveri, o essere ricchi. Innumerevoli condizioni umane possono creare sofferenza. Quali dovremmo medicalizzare e quali no? Sono stati medicalizzati, psichiatrizzati, i neri in fuga dalla schiavitù, la masturbazione, l'omosessualità, la contraccezione. Oggi non lo si fa più, e si medicalizzano invece quel che una volta si chiamava malinconia, o la pigrizia, il suicidio, il razzismo, il sessismo. RW: Cambiamo marcia. TS: Non ancora. Perché voglio aggiungere che quello che chiamo "Stato terapeutico." è esattamente questa crescente tendenza a definire malattie i problemi umani, e a cercare di porvi rimedio, o di "aggredirli" come fossero malattie. RW: Certamente: tutto quel che si era soliti considerare dal punto di vista religioso ora è considerato dal punto di vista medico. È quasi una pura trasformazione. TS: Esattamente! Ed è assolutamente evidente. È necessario un sistematico ottundimento educativo e politico del pubblico perché non si veda. Trecento anni fa ogni condizione umana di difficoltà era vista come un problema religioso: la malattia, la povertà, il suicidio, la guerra. Ora tutto è visto come problemi di salute, come problemi psichiatrici, come problemi causati da geni e curabili con una "terapia". In passato, il diritto penale era intriso di teologia, oggi è intriso di psichiatria. RW: Il presidente Bill Clinton è un ottimo esempio di come usiamo modelli diversi per descrivere lo stesso problema. La moglie ha detto che i suoi problemi erano dovuti a difficoltà emotive incontrate nell’infanzia. Il fratello ha detto che era un sessuodipendente, perché era un drogato, anche lui. E Bill Clinton ha detto che era una questione di peccato, adottando il modello religioso. Così è andato da un pastore. TS: Questo è un’osservazione interessante. Ma bisogna notare che Clinton non è andato da un pastore vero e proprio. È andato da un politico, Jesse Jackson. Il suo compito era di ricostruire l’immagine di Clinton. E l’ha fatto. Clinton l’ha selezionato come ha fatto con altri, proprio come un imperatore medievale avrebbe scelto un vescovo per ricavarne un ritorno d’immagine. RW: Posso cambiare marcia adesso? TS: Certo. RW: Lei è conosciuto come un libertario. TS: Sì, sono un libertario. RW: Il libertarismo è una visione filosofica, un punto di vista economico e politico. Che cosa vuol dire rispetto al fatto di praticare la psicoterapia? TS: Inizierò dalla fine, per così dire. Se si usa la lingua con attenzione e si prendono sul serio libertarismo e psichiatria, allora il termine "psichiatra libertario" è semplicemente un ossimoro. Libertarismo significa che la libertà individuale è un valore più importante della salute mentale, comunque la si definisca. La libertà è certamente più importante che avere psichiatri che ti rinchiudono per proteggerti da te stesso. La psichiatria nasce e muore con la coercizione, con la restrizione sul piano civile. Una psichiatria non coercitiva è un ossimoro. Questo è uno dei motivi principali per cui non mi sono mai considerato uno psichiatra: ho sempre rifiutato la coercizione psichiatrica. Ora, in termini di filosofia politica, il libertarismo è quello che, nel XIX° secolo, è stato chiamato liberalismo. Al giorno d'oggi è a volte chiamato anche "liberalismo classico." Si tratta di un’ideologia politica che vede lo Stato come un apparato con il monopolio dell'uso legittimo della forza, e quindi come un pericolo per la libertà individuale. Al contrario, la moderna visione liberale considera lo Stato come un protettore, un genitore benevolo che offre sicurezza ai cittadini quasi come fossero bambini. Per me, essere un libertario significa considerare le persone come adulte, responsabili di quel che fanno, dalle quali ci si aspetta che si sostengano da sé, anziché essere sostenute dal governo, dalle quali ci si aspetta che paghino per quel che vogliono, invece di ottenerlo dai medici o dallo stato perché ne hanno bisogno. È la vecchia idea jeffersoniana che chi meno governa meglio governa. La legge dovrebbe garantire alle persone nel loro diritto alla vita, alla libertà e proprietà, proteggendole da chi vuole privarle di questi beni. La legge non dovrebbe proteggere le persone da se stesse. Ciò significa che, per quanto possibile, le cure mediche dovrebbero essere distribuite, economicamente parlando, come un servizio personale nel libero mercato. C'è molta saggezza nell’adagio, "La gente paga per ciò a cui dà valore, e dà valore a ciò che paga." È pericoloso discostarsi troppo da tale principio. RW: Perché devono per forza c’entrare i soldi? Chi ha meno soldi, non può permettersi le stesse cose di altri che hanno più soldi. Anche un povero può trarre beneficio dalla terapia. TS: Certo. La questione che lei solleva confonde però la ricerca di egualitarismo con i concetti di salute o di psicoterapia, e anche con la ricerca della salute. Perché la psicoterapia dovrebbe essere dispensata in modo più egualitario di altre cose? C’è da dire poi che spesso la gente dà maggior valore a cose diverse dalla salute, per esempio all’avventura, al pericolo, all’eccitazione, al fumo. Mi lasci elaborare questo problema. Gli economisti e gli epidemiologi hanno dimostrato, senza ombra di dubbio, che le due variabili più strettamente correlate con la buona salute sono il diritto di proprietà e la libertà individuale, il libero mercato. Chi gode oggi della migliore salute sono i cittadini dei paesi capitalisti in occidente e in Giappone, e quelli con la salute peggiore sono quelli che hanno goduto delle benedizione di ottant’anni di paternalismo statalista, sotto i regimi comunisti. In Unione Sovietica, dove la libertà politica e il benessere economico sono stati sistematicamente minati dallo Stato, dove si è avuta uguale miseria per tutti, l'aspettativa di vita è scesa da oltre settant’anni a circa cinquantacinque anni. Nello stesso periodo, nei paesi avanzati, è costantemente cresciuta ed è ora di quasi ottant’anni. La medicina c’entra poco con questo, perché la Russia ha avuto ampio accesso alla scienza medica e alla tecnologia. È soprattutto una questione di stile di vita, di quel che veniva chiamato buone o cattive abitudini. Ed è anche questione di buona salute pubblica, nel senso di mantenere una situazione ambientale protetta. RW: Lei ha scritto, L'etica della psicoanalisi nel 1965. Quel libro era la sua immersione nella psicoterapia e nella psicoanalisi. Che cosa può da dire su ciò che è utile in psicoterapia? Quali teorie tiene in considerazione o trova valide? Quando si è trovato in un rapporto libero di psicoterapia – per dirlo in breve, quello in cui una persona aiuta qualcuno sui suoi problemi personali – cos’ha trovato utile, e che teorie ha utilizzato nel suo lavoro? TS: Sta ponendo due domande: cosa ho trovato utile o interessante e che teorie ho usato. Il tipo di terapia che si fa, se lo si fa bene, a mio parere, è selezionato e dipende principalmente dal terapeuta. Persone diverse hanno diversi temperamenti e diversi modi di relazionarsi con gli altri. Poiché la relazione terapeutica è un rapporto intimo con un altro essere umano, il tipo di psicoterapia che ha senso per un terapeuta riflette il tipo di persona che è. A questo riguardo, la psicoterapia è quanto vi è di più diverso dalle terapie organiche in medicina. Il corretto trattamento del diabete non dipende, e non deve dipendere, dalla personalità del medico. È una questione di scienza medica. Per altro verso invece, il corretto trattamento di una persona in difficoltà che cerca aiuto è una questione di valori e stili personali da entrambi le parti, del terapeuta e del paziente. Un confronto adeguato per la psicoterapia non è con i trattamenti medici, ma con il matrimonio, o con il fatto di crescere dei figli. Che tipo di rapporto dovrebbe avere un uomo con sua moglie, e viceversa? Come si fa a crescere un bambino? Persone diverse si relazionano in modo diverso con le mogli o con i mariti o con i figli. Fintanto che il loro stile di vita per loro funziona, non c’è niente da aggiungere. Credo quindi, in primo luogo, che qualsiasi tipo di cosiddetta terapia – ogni tipo di situazione umana di aiuto che ha senso per entrambi i partecipanti e in cui si può entrare o uscire e che può essere condotta in modo interamente consensuale e volontario, e nella quale non c’è costrizione o frode – è, per definizione, utile. Se non fosse utile, il cliente non verrebbe e non pagherebbe. Il fatto che un cliente ritorni e paghi per quello che riceve da un terapeuta è per me le prova che la trova utile. La paragonerei, ancora una volta, alla religione, al fatto di andare in chiesa. Personalmente, io non sono religioso. Ma rispetto le religioni e quanti trovano conforto nella fede. Milioni di persone in tutto il mondo continuano ad andare in chiesa. Non vi andrebbero se non lo trovassero utile, ammesso che non vi vadano solo per motivi sociali, ma anche in questo caso ci vanno perché lo trovano utile, anche se non per motivi strettamente teologici. RW: Quale interesse inizialmente l’ha spinta a diventare psichiatra? TS: Non mi ha mai interessato diventare psichiatra e non mi sono mai considerato uno psichiatra. La psichiatria era una categoria in cui dovevo situarmi, data la società in cui viviamo. M’interessava la psicoterapia, in cui vedevo il cuore dei presupposti freudiani, e la promessa, che purtroppo non si è mai realizzata, di un codice professionale. Freud, Jung e Adler hanno avuto una buona idea, quella per cui due persone, un professionista e un cliente, s’incontrano in un rapporto di fiducia, e uno cerca di aiutare l'altro a vivere meglio la propria vita. Ognuno di questi pionieri ha messo in luce un aspetto diverso su come cavarsela nel modo migliore con questo problema. Ci sono tre angoli visuali della vita: il passato, il presente e il futuro. Freud si è soffermato sul passato, Jung si è soffermato sul futuro, Adler e Rank si sono soffermati sul presente. Tutto questo ha senso. Ma deve anche essere tagliato su misura perché abbia senso per il paziente. RW: Come funziona questo in termini di relazione terapeutica? TS: Il rapporto deve essere di totale collaborazione. I due possono incontrarsi solo poche volte, o molte volte per molti anni. Il terapeuta è al servizio del paziente. Questo non significa che deve essere d'accordo con tutto ciò che il paziente crede o vuole, lungi da ciò. Ma significa che al terapeuta è vietato, dal suo stesso codice morale, fare alcunché contro l'interesse del paziente, perché è il paziente a definire qual è il suo interesse. Questo fa parte della mia idea di contratto con il paziente. Ecco perché ho dato al mio libro il titolo L'etica della psicoanalisi. La terapia è una questione di etica, non di tecnica. È sempre stato fondamentale che i miei pazienti scegliessero da sé. Venivano quando volevano, venivano da me perché volevano vedere me, e non qualcun altro. E non c'è mai stato niente di tutto questo problema di essere pronti per terminare la terapia. Nello stesso modo in cui è il paziente a decidere se e quando iniziare la terapia, così è il paziente a decidere se e quando terminarla. Non vi è nulla di tutta questa storia per cui il terapeuta deve cambiare il paziente, o migliorarlo, o controllare il suo comportamento, o proteggerlo da se stesso, e così via. Spetta al paziente cambiare se stesso. Il compito del terapeuta è di aiutarlo a cambiare nella direzione in cui il paziente vuole cambiare, a condizione che questa direzione sia accettabile per il terapeuta. Se non lo è, tocca allora al terapeuta discuterne con il paziente e porre fine alla relazione. RW: Quali sono allora le aspettative del paziente? TS: Il paziente deve solo pagare. Questo può suonare come una battuta egoista. Non lo è. È importante. Spetta al paziente prendere quel che vuole dalla situazione. La situazione è simile a quel che succede a scuola, soprattutto all’università. Se si va a scuola e si paga per andarci, l'idea è che si dovrebbe imparare qualcosa. Ma non c'è coercizione. Alla fine, se uno non impara, sono affari suoi. È lui a perderci. RW: Lei ha detto che il cambiamento non è un requisito indispensabile, tuttavia la maggior parte delle persone vuole qualche cambiamento. TS: Non è così semplice. La gente vuole cambiare e al tempo stesso non vuole cambiare. Il comportamento che il paziente vuole cambiare è, in qualche modo – questo è molto freudiano – anche funzionale per il paziente, altrimenti l’avrebbe già cambiato, senza bisogno di terapia formale. Le persone possono cambiare da sé e lo fanno. RW: Adattamento? TS: Adattamento. Esattamente. I cosiddetti sintomi mentali sono piuttosto diversi dai sintomi medici. Un colpo di tosse, per esempio, se si ha una polmonite, è un fatto di adattamento: si libera il corpo dal muco e dal materiale infetto, da detriti di tessuti come l’espettorato. Ma è un fatto di adattamento solo in questa o in altra situazione patologica simile. Non è un adattamento a se stessi come essere umano. Una fobia invece, l’ansia, la depressione, e così via possono essere fatti di adattamento quasi come strategie di vita, strategie economiche o interpersonali. RW: Il suo obiettivo per la psicoterapia, cioè per il funzionamento umano completo, è di aumentare l’autonomia delle persone. Lei aveva questo obiettivo. TS: Questo era il mio obiettivo di fondo, quello che ho comunicato ai miei clienti come principio etico. La mia premessa è che la responsabilità, dal punto di vista morale, precede la libertà. Se quindi una persona vuole ottenere più libertà – riguardo alle sue paure, a sua moglie, al suo lavoro, e così via – deve prima assumere maggiori responsabilità nei loro confronti, poi si guadagnerà maggiore libertà rispetto a loro. L'obiettivo è di assumersi maggiori responsabilità e quindi guadagnare più libertà e più controllo sulla propria vita. I problemi o le domande per il paziente diventano fino a che punto sia disposto a riconoscere l’evasione dalle proprie responsabilità, che spesso si esprime come sintomi. RW: Si tratta di un dialogo. TS: Sì, è probabile che sia un punto focale del dialogo terapeutico. In realtà, alcuni dicono di voler fare questo o quello – per esempio vogliono smettere di fumare o vogliono essere un genitore migliore – ma in effetti poi non vogliono farlo, non vogliono rinunciare al piacere del fumo, o non vogliono farsi carico della cura di qualcuno che dipende da loro. Ci può essere qualcuno che viene a incontrare un terapeuta dicendo che vuole uccidersi. Ovviamente, non vuole solo questo. Vuole anche la psicoterapia. In breve, le persone sono spesso ambivalenti per quanto riguarda le scelte fondamentali. L'ambivalenza non è un sintomo patologico, è uno stato mentale normale di molte persone, adeguato per molte situazioni. RW: Torniamo di nuovo alla terapia. Lei non la sta più esercitando? TS: No, ma l'ho fatto per quarantacinque anni. RW: Qual era la cosa più difficile e quale la più soddisfacente per lei lavorando con le persone in situazione individuale? TS: Ho trovato molto soddisfacente esercitare la terapia, e per nulla faticoso. Ho lasciato Chicago per Siracusa principalmente per sfuggire alla necessità di mantenermi soltanto attraverso la pratica della terapia, cosa che può creare la tentazione, dal punto di vista finanziario, di rendere il paziente dipendente dalla terapia. Naturalmente, chiunque eserciti la terapia probabilmente può dirlo, ma penso che una gran quantità di persone abbiano tratto beneficio dal fatto d’intrattenere una conversazione con me. RW: Con tutto il lavoro che ha svolto in politica e in filosofia, il suo lavoro sulla psicoterapia è un po’ trascurato. Viene sottovalutato il fatto che lei fosse in trincea, ad aiutare le persone, a parlare con loro. TS: Molti di quelli che ho visto sarebbero stati diagnosticati da altri terapeuti come gravemente malati. Alcuni di loro sono stati diagnosticati come psicotici e messi sotto psicofarmaci. RW: Non hai mai prescritto farmaci? TS: No. Mai quando praticavo la psichiatria – intendo la psicoterapia. Non ho mai prescritto un farmaco. Non ho mai messo qualcuno in coma insulinico né sottoposto a elettroconvulsioni. Non ho mai fatto internare nessuno. Non ho mai testimoniato in tribunale che un criminale non fosse responsabile per i propri crimini. Sono entrato in psichiatria con gli occhi ben aperti. Non ho mai considerato la psichiatria o la psicoterapia come parte della medicina. Forse dovrei aggiungere, anche se dovrebbe essere ovvio, che non ho avuto obiezioni a che il paziente assumesse farmaci o che facesse qualsiasi altra cosa volesse. Per quanto mi riguarda, le cose che avvenivano al di fuori della stanza d’analisi non erano affari miei, nel senso che se il paziente voleva prendere farmaci doveva andare da un medico per averli, nello stesso modo in cui se avesse voluto il divorzio, avrebbe dovuto andare da un avvocato. RW: Con la situazione legislativa odierna è molto difficile, per un terapeuta o uno psichiatra praticare la psicoterapia. Si possono eludere un ricovero coatto, o altri mandati statali, o le richieste delle assicurazioni, ma quando arriva il momento critico, si è spinti a violare la discrezione o si finisce nei guai. TS: Questo è dir poco. Ai fini pratici, è impossibile. Il segno distintivo del totalitarismo è che lo Stato non ti lascia segreti personali. È il motivo per cui chiamo "Stato terapeutico" il nostro attuale sistema politico. Un simile Stato è il tuo amico, il tuo benefattore, il tuo medico. Perché gli si dovrebbe voler nascondere alcunché? Ricordiamoci che era impossibile fare psicoterapia nella Russia sovietica, o nella Germania nazista. Supponiamo che qualcuno venga da lei nella Germania nazista dicendole: "Tengo alcuni ebrei nascosti in cantina." Se non lo denuncia corre il rischio di essere messo in un campo di concentramento e gasato. Oggi se, tra gli altri compiti, non si riferisce che il paziente ha tendenze suicide, o omicide, o che è un molestatore di bambini, si cercano guai. In tal modo l’aspetto confidenziale della psicoterapia è messo fuori gioco, è finito. I terapeuti e i pazienti stessi si prendono gioco di sé dicendosi che non è così. Cosa si può fare? Niente. Di fatto siamo riusciti a rendere illegale il libero esercizio della psicoterapia! Lo psicoterapeuta è stato trasformato in un agente con l’obbligo di dichiarare, un agente dello Stato il cui compito è quello di tradire il suo paziente. Abusi sui minori, abuso di droga, violenza, suicidio: il terapeuta deve bloccare, deve impedire tutte queste cose. Il terapeuta dev’essere un poliziotto che finge di essere terapeuta. Sempre più spesso la gente si lamenta per qualcuno di questi problemi di riservatezza, ma non vede il quadro più ampio. Non vede che questo ha a che fare con l'alleanza della psichiatria e della psicoterapia con lo Stato, in un modo che replica l'alleanza tra Chiesa e Stato con tutte le sue implicazioni. RW: A maggior ragione, quando la gente va da un terapeuta che lavora in regime di convenzione, deve avere qualche problema per varcare la sua porta, per vedere il terapeuta e per parlare, o per chiedere i farmaci, ma non deve mostrare di avere troppi problemi. Se ci sono troppi problemi i pazienti sono visti come cronici e non possono ottenere aiuto. Pensa che un terapeuta che lavora in regime di convenzione sia in grado di esercitare liberamente la psicoterapia? E il paziente è libero di lavorare in psicoterapia? TS: La psicoterapia in regime di convenzione è un brutto scherzo. Sarebbe come la religione in regime di convenzione, o l'istruzione in regime di convenzione. Anche le cure mediche si complicano e si contaminano se il rapporto diretto tra medico e paziente è disturbato dall'ingresso di terzi, se il paziente, in qualche modo, non paga per ciò che riceve, e se non può ottenere ciò che vuole con i soldi che spende. La psicoterapia moderna è basata sulla psicoanalisi, e la relazione psicoanalitica era basata sul rapporto che intercorre tra il sacerdote e il penitente nel confessionale. Il punto cruciale del confessionale è l’autoaccusa da parte del penitente, e la promessa, da parte del sacerdote che la confessione ascoltata non avrà e non potrà avere conseguenze in questo mondo (ma solo in quello ultraterreno) per chi si autoaccusa . Un sacerdote che ascoltasse una confessione e che lavorasse come spia per lo Stato sarebbe un’oscenità morale. Cose del genere non si verificavano nemmeno nei giorni più bui del totalitarismo. La stessa cosa vale per la psicoterapia, basata sulla riservatezza e sulla premessa che il paziente si accusa con la speranza, così facendo e con l'aiuto del terapeuta, di essere in grado di cambiare se stesso. Quel che è veramente brutto nella psicoterapia oggi è che molti pazienti lavorano con la falsa convinzione che quel che dicono al terapeuta sia riservato, e i terapeuti non dicono prima ai pazienti che se tirano fuori certi pensieri e certe parole, il terapeuta è tenuto a segnalarlo alle autorità competenti, e che i pazienti in tal caso possono essere privatidella libertà, del lavoro, del loro buon nome, e così via. Ora, dovrebbe essere chiaro che collocare la psicoterapia sotto il controllo di una compagnia di assicurazioni o dello Stato è soltanto infilare una sciocchezza dietro l’altra. Possiamo ancora chiamarla psicoterapia, e possiamo ancora trattarla come se stessimo facendo psicoterapia, "cura delle anime," mentre, in linea di principio, non facciamo nulla di diverso da quel che si fa nella chirurgia ortopedica, sistemare un osso fratturato. Ma la psicoterapia è come quando si va in Chiesa. Ci si va volontariamente per un certo tipo di servizi che si vogliono ottenere da una certa persona. Ed è qualcosa che avviene sul piano spirituale. Non è sul piano fisico. RW: Mancano solo un paio di minuti alla fine. Vorrei porle un paio di altre domande. È stato un piacere parlare del suo modo di fare terapia, perché credo lei abbia poche occasioni di farlo, date le misure di sicurezza che stanno intorno a molte delle sue opinioni. TS: Grazie. RW: Ha ricevuto una gran quantità di critiche nel corso della sua carriera. TS: Può ben dirlo! RW: Forse una quantità enorme! Nel suo libro, Follia, lei segnala tutte le critiche. TS: Non tutte! RW: Non poteva menzionarle tutte? TS: No. Solo alcune (risate). RW: Come affronta questo aspetto? Lei è forse uno degli psichiatri più criticati della storia. Non conosco nessun altro che sia stato criticato come lei. TS: Sono stato molto fortunato. Ho avuto buoni genitori, un buon fratello, una buona educazione quando ero bambino a Budapest. Ho figli molto in gamba, buoni amici, buona salute, buone abitudini, una discreta intelligenza. Davvero, mi sono sempre sentito baciato dalla fortuna. Ha contribuito anche il fatto di sentire che molti hanno condiviso le mie opinioni. In fondo quel che sto dicendo che è semplicemente che 2 + 2 = 4. Molti però hanno paura di dirlo, e a volte può essere personalmente e politicamente imprudente dirlo. Non ho fatto nessuna scoperta scientifica. Sto semplicemente dicendo che se sei bianco e non ti piacciono i neri, o viceversa, questa non è una malattia, è un pregiudizio, o che se ti trovi inun edificio da cui non puoi uscire, non è un ospedale, è una prigione. Non m’importa quanti siano a chiamare il razzismo una malattia o il ricovero coatto un trattamento. RW: La critica l’ha mai abbattuto? TS: Certo che sì, soprattutto quando in realtà si puntava a ferirmi sul piano personale, professionale, legale. Non c'è bisogno di entrare in questi argomenti. Ho cercato di proteggermi e sono scappato, per fortuna. Ho trovato un aiuto sconfinato nella letteratura, nei grandi scrittori. Ibsen ha detto, tra le altre cose, che "una solida maggioranza ha sempre torto." RW: Un’ultima domanda. Oltre a essere stato molto criticato, lei è anche diventato per molti un po’ un eroe, per le cose per cui ha lottato, per la libertà, per i diritti individuali, per una maggiore libertà con responsabilità. Chi sono i suoi eroi, dall’infanzia a oggi? TS: Da dove iniziare? Sono molti. Shakespeare, Goethe, Adam Smith, Jefferson, Madison, John Stuart Mill, Mark Twain, Henry Louis Mencken, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Orwell, Clive Staples Lewis, Ludwig von Mises, Friedrich August von Hayek, Camus e Sartre, anche se personalmente e politicamente trovo quest’ultimo piuttosto meschino. Era un simpatizzante comunista. Era disposto a chiudere un occhio sul Gulag. Ma era molto perspicace sulla condizione umana. La sua autobiografia è superba. Il suo libro sull'antisemitismo è importante. RW: Camus lo sfidò. TS: Sì, Camus ha rotto con lui, soprattutto sulla politica. Camus fu una persona migliore, un essere umano più degno di ammirazione. Fu anche uno scrittore formidabile. RW: Potremmo andare avanti su come ognuno di loro l’ha influenzato, ne sono sicuro, lo faremo un altro giorno, forse. Voglio ringraziarla per essere stato qui con noi oggi. Sono sicuro che i nostri lettori apprezzeranno la sua franchezza. TS: Grazie. * Famoso rivenditore per corrispondenza con sede a Chicago Fonte: Psychotherapy.net. Data di pubblicazione 2000 Il godimento: non si parla d'altro, senza saper bene come chiamarlo. Il godimento è il nuovo soggetto, il soggetto lacaniano, quello che, qualunque cosa tu faccia – evitare quello che eviti, eliminare quel che elimini – comunque gode. Penso dunque godo, cerco di non pensare, e allora godo. Ti sfioro e godo, mi sfiorano e godo. Con tutto quel che ne consegue. Il godimento, in sé, non ha altro limite che il corpo. In tal modo, in genere, prima di raggiungere il limite, con le parole, con le lettere, con il sapere, si riesce a mettere un freno al godimento, perché non si trasformi in angoscia. Chiamiamo sintomo il lavoro necessario per contenente il godimento, e a partire da questo parliamo di clinica: poiché il godimento, mentre viviamo, non può essere eliminato, ne facciamo una politica, una politica che include l'inconscio.
Il senso di colpa è una forma di godimento, insidioso, appiccicoso, censorio. In primo luogo c'è la colpa, che crea il Super-Io: la lezione freudiana è che quanto più c'è astinenza, tanto più c'è senso di colpa. Il soggetto crede di riconoscersi nella colpa, ma forse è solo un modo per evitare la responsabilità. La colpa è sempre l'altro, diciamo l'Altro, con la A maiuscola. Ma se assumiamo che la colpa sia un modo di far esistere l'Altro, dobbiamo riconoscere che vi è un altra colpa, segreta, più certa, senza Altro, indelebile, e che Jacques Lacan ha letto in Antigone. Questa colpa, che potremmo definire tragica, o reale, cerca il proprio discorso, ma non lo può avere e ci lascia soli nel lavoro di combinare il godimento con la legge, vale a dire con la parola. Ma ci sono soggetti che sembrano non voler sacrificare nulla per nulla. Abbiamo il sospetto che in questo caso vi sia un sacrificio non riconosciuto, che un'analisi potrebbe scoprire. In alcuni casi sembra si dimostri che non è sempre così, e che alcuni soggetti sono vittime del reale, come se non esistesse la trasgressione, come se non esistesse il male. La nostra domanda è se l'impunità sia in nome di qualcosa, o se questo nome sia sostituito da qualcosa. Vediamo che nel nostro tempo la politica diventa politica delle cose. Se è così, non resta più nessuno per nominare quel che si taglia, e l'impunità ci sembra, fuori dal regno della politica, è un'arte dell'impossibile. XII Giornate della Escuela lacaniana de psicoanalisis Barcelona, 9 e10 novembre 2013 WORLD TRADE CENTER Moll de Barcelona s/n 08039 Barcelona di Vicente Palomera
In tempi di incertezza, l'angoscia è certa. L'angoscia è l'unico affetto che non inganna. Sembra di potervi cogliere qualcosa che non si riesce a dire, che eccede il significato e che rifiuta di riconoscere la nostra esistenza come soggetti. L'angoscia è inafferrabile in qualsiasi forma di discorso, si presentata nuda e cruda, senza attributi. Oggi non è un fatto "metafisico", e ancor meno "esistenziale". È stato proposta l'etichetta "attacco di panico", ma sotto questo termine si sono poi confuse l'angoscia, la paura, il panico. Posta tra le emozioni negative, l'angoscia è stata ridotta a "deficit di adattamento del corpo", a "errore di giudizio" o a "inibizione di un processo cognitivo." In breve, si cerca di a sradicare l'angoscia con metodi suggestivi, e anches coercitivi. Per mostrare la relazione che l'angoscia intrattiene con il desiderio, Lacan, nel 1962, ha proposto un racconto di grande efficacia esplicativa. Immaginiamo che un'enorme mantide religiosa ci si avvicini mentre indossiamo una maschera di animale, come si fa nell'Azeri Dantza a Hernani, dove un uomo danza indossando una maschera da volpe. Nell'esempio proposto da Lacan, l'uomo non sa che maschera porta, però sa che se stesse indossando una maschera da maschio della mantide, avrebbe buoni motivi per sentirsi preoccupato. Si vede qui che il limite in cui emerge l'angoscia è sempre collegato a una x, un'incognita. Non è però questa incognita a provocare l'angoscia, ma l'oggetto che noi possiamo essere senza saperlo. Si può quindi dire e dimostrare clinicamente che il desiderio si presenta sempre come una x, come un'incognita e, in secondo luogo, che l'angoscia è collegata all'incertezza rispetto all'identità, al fatto di non sapere l'oggetto che siamo per l'Altro. Immaginiamo ora per un momento che l'uomo della danza veda riflessa nel bulbo oculare della mantide femmina la propria immagine con la maschera della mantide maschio, si capisce allora che il livello di angoscia sarà schiacciante. L'apologo di Lacan ha lo scopo di mostrare che l'incertezza, il fatto di non sapere cosa siamo per l'Altro, è più rassicurante del fatto di saperlo con certezza. L'angoscia ha un rapporto diretto con il desiderio: cosa vuole l'Altro da me? Come mi vuole? Come mi vede? La certezza dell'angoscia può dunque essere atroce e dispotica. Lacan si spinge a dire che "l'angoscia è la paura della paura". Può essere paralizzante ("catatonia del soggetto"), o spingere al passaggio all'atto e, in questo caso, sacrificare, fuggendo, la verità che è in gioco. Lacan ha sempre insegnato a non incorrere in nessun eroismo dell'angoscia, considerava piuttosto si trattasse di disangosciare. Ciascuno dispone di un prisma attraverso il quale vede il proprio mondo, e attraverso il quale vede sia il prossimo sia partner sessuale. Questa prisma lo chiamiamo "fantasma inconscio", ed è la risposta che ciascuno si è forgiato per proteggersi contro l'incognita x che è il desiderio dell'Altro. Diciamo che è una risposta prêt-à-porter, pronta pere essere offerta a quest'Altro per ripararsi dall'angoscia. "Come mi vede? Che cosa vuole l'Altro? " Il fantasma serve per istituire un Altro su misura, per il quale il soggetto saprebbe cosa rappresenta. A volte irrompe però l'imprevisto e questo prisma non basta a garantire l'incontro del soggetto con se stesso. Appare quindi l'angoscia e, a volte, s'innescarsi una nevrosi. Questo innesco avviene sempre nell'incontro del soggetto con la maschera che fa segno di un godimento sconosciuto, diverso da quello che il soggetto credeva di poter dominare. Non è raro che l'emergere dell'angoscia includa una sensazione d'impotenza, d'incapacità di fronteggiare l'evento imprevisto del corpo. Si verifica allora quel che viene comunemente chiamato depressione, che segnala come il fantasma sia scosso, come il soggetto senta di aver fallito e sia dominato da un senso di rinuncia. Come affrontare l'angoscia, come superarla? Se l'angoscia è sempre singolare, cioè quella di un soggetto preso nella sua parola singolare, il modo migliore per affrontarla è pensare che ci sia una causa, dato che l'enigma di fondo dell'angoscia è sempre il desiderio dell'Altro, questa incognita che corre il rischio sparire, di mancare. Se il soggetto non ha più questa bussola si vede ridotto a essere solo un individuo-corpo, senza poter collocare il proprio essere, il proprio desiderio e il proprio godimento in un legame con l'altro. Sorge allora il segnale dell'angoscia come segnale di allarme che avverte di un pericolo incombente. È quindi possibile fare buon uso di questa "angoscia-segnale", dell'angoscia che segnala un pericolo. Possiamo usarlo per attraversare l'altra angoscia, quella che paralizza e inibisce l'atto, l'angoscia che anticipa e respinge la certezza che produrrebbe l'atto. In realtà, è possibile e utile distinguere due stati dell'angoscia. Da un lato c'è un'angoscia costituita, quella che troviamo descritta nei trattati di psicopatologia. Si tratta di un'angoscia senza limiti, quasi labirintica, dove il soggetto sembra condannato a percorrere il cerchio infernale che lo blocca quando dovrebbe passare all'atto. È "un'angoscia di ripetizione" che tende ad andare all'infinito. D'altro lato c'è l'angoscia costituente, cioè un'angoscia produttiva, sottratta alla coscienza, un'angoscia che produce l'oggetto come perduto, come fosse una pagina bianca (cfr. Miquel Bassols, Letture della pagina bianca, 2011). In questo tipo di angoscia si vede che non c'è prima un oggetto e poi la sua perdita, ma che il soggetto si costituisce in quanto tale nella perdita. Questa è l'angoscia che ha portato Romain Gary a dire che "non ci sarebbe creazione senza angoscia", e che "senza l'angoscia non ci sarebbe l'uomo" (Roman Gary, 1976). Abbiamo fatto buon uso di angoscia quando siamo riusciti a fare in modo che il suo segnale non sia oscurato dal modo in cui viene lanciato, e cioè dai fenomeni corporei insopportabili causati dall'angoscia, vale a dire che l'angoscia è produttiva quando riusciamo a far sì che la sua temuta certezza renda possibile vivere il desiderio senza mentire a se stessi, lasciando che quest'angoscia si limiti a essere solo un segnale dei più vivi che ci sono in noi. 12. 01. 2013 |
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