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di Paola Bolgiani
Il testo sull’autismo approvato il 19 aprile 2013 e pubblicato il 1 agosto 2013 dal Comitato Nazionale per la Bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, è un poderoso testo che si propone di affrontare le questioni bioetiche poste dalla “tematica dello ‘spettro autistico’”, come tema “che si pone nell’intersezione tra i due grandi temi della salute mentale e della disabilità, ritagliandolo in quelle particolari fasi della vita umana, l’infanzia e l’adolescenza, in cui le capacità mentali evolvono verso la maturità”.[1] Questo tema è stato scelto in quanto si è ritiene che l’autismo sia una condizione paradigmatica delle problematiche che riguardano in generale le cosiddette “disabilità psichiche” (categoria in cui oggi rientra in generale la malattia mentale), ed in particolare la difficoltà di creare una “sensibilità sociale” verso i diritti delle persone che ne sono portatrici. Dato che l’autismo è una condizione che riguarda l’individuo fin dall’infanzia, si considera questa tematica particolarmente sensibile per i problemi più generali legati all’integrazione sociale delle persone “disabili”. I di Nicola Purgato, direttore terapeutico Antenna 112 e Antennina di Venezia
Le “Linee Guida” sono ormai, a tutti gli effetti, un “genere letterario”. Anzi, sono la koinè del XXI secolo. Dai convegni alle riviste, passando per i quotidiani che tutti leggiamo, è questo il linguaggio dominante. L’Italia sin dal 2002 si è dotata di un Programma Nazionale per le Linee Guida (PNLG) previsto dal Piano Sanitario Nazionale (1998-2000) e dal DL 229/99. Lo scopo del PNLG è “l’elaborazione di linee guida e di altri strumenti di indirizzo finalizzati al miglioramento della qualità dell’assistenza. Questi documenti propongono l’adozione di linee guida come richiamo all’utilizzo efficiente ed efficace delle risorse disponibili e come miglioramento dell’appropriatezza delle prescrizioni.” (Manuale metodologico. Come produrre, diffondere e aggiornare raccomandazioni per la pratica clinica, ISS, Roma 2002). di Tina Susman
Lunedì 19 agosto il New Jersey è diventato il secondo stato, dopo la California, a vietare la cosiddetta terapia di conversione finalizzata a cambiare l' orientamento sessuale dei minorenni gay, dopo che il governatore Chris Christie ha promulgato una legge per vietare la controversa pratica. Era previsto che Christie, appartenente al partito repubblicano, firmasse la legge passata in entrambe le camere del parlamento dello stato nel mese di giugno. In una lettera firmata, fatta circolare dopo aver promulgato la legge, Christie ha detto di aver considerato le preoccupazioni sollevate intorno al fatto che il governo possa "limitare la scelta dei genitori" nella cura dei loro figli. "Credo tuttavia che per quanto riguarda le cure mediche per i minorenni dobbiamo farci guidare dagli esperti del settore per determinare i relativi rischi e benefici " ha aggiunto il governatore. " L' American Psychological Association ha trovato infatti che i tentativi di cambiare l'orientamento sessuale possono creare gravi rischi per la salute tra cui, ma non solo, depressione, abuso di sostanze, ritiro sociale, riduzione della stima di sé e pensieri suicidi. "Credo non sia opportuno esporre dei minorenni a simili rischi per la salute, senza chiare prove di benefici che li compensino. Sulla base di questa analisi, firmo e trasformo il disegno di legge in legge operativa". Christie, di fede cattolica, considerato un probabile candidato presidenziale per il 2016, si oppone al matrimonio omosessuale, e il suo stato è uno dei due che, nel nord-est, non riconosce i matrimoni gay. Rilasciando la sua dichiarazione firmata, l'ufficio di Christie ha tuttavia incluso un suo commento in una intervista alla CNN dove sosteneva che, nonostante la posizione della chiesa a cui appartiene, Christie " è sempre stato convinto che le persone nascono con una predisposizione all'omosessualità". La legge contro la terapia di conversione, A- 3371, afferma che essere " lesbiche, gay o bisessuali non è una malattia, né un disturbo, né una carenza o un difetto ", e vieta ai terapeuti autorizzati di somministrare la terapia per trasformare da omo a eterosessuali i minori di diciotto anni . " Non c'è conquista maggiore che contribuire a fermare l'abuso nei confronti dei nostri giovani, " ha sostenuto in una dichiarazione subito dopo la firma Troy Stevenson, membro del gruppo di difesa gay Garden State Equality. "Questa legge proteggerà i giovani dagli abusi da parte di coloro di cui dovrebbero fidarsi di più: i loro genitori e i loro medici . " Giovanni Tomicki della Lega conservatrice delle famiglie americane, ha definito incostituzionale il disegno di legge e a giugno, dopo la sua approvazione, ha promesso che i suoi oppositori si sarebbero appellati per impedire che la legge venga applicata. Un'analoga causa legale ha impedito alla legge sul divieto della terapia di conversione per i minorenni, approvata in California, di entrare in vigore come previsto all'inizio di quest'anno, e la situazione legislativa rimane per ora in attesa. Un collegio di tre giudici della Corte d'Appello degli Stati Uniti ha deciso lo scorso dicembre di bloccare la legge in vista di una decisione sulla sua costituzionalità. Gli oppositori hanno sostenuto che essa viola il diritto di libertà di parola . Fonte: Los Angenes Times del 19. 08. 2013 Pubblichiamo l'articolo a cui si riferiva il post di ieri dal titolo: "Psicologia di destra e di sinistra". Si tratta di un esempio di psicologia di destra, dove dietro l'apparenza della neutralità scientifica il lettore viene orientato verso il mantenimento dello status quo, e dove alcuni effetti sociali, considerati immutabili, vengono fatti risalire nei loro effetti negativi a meccanismi di lettura individuale. In linea con l'affermazione con cui a suo tempo Margaret Thacher sintetizzò il pensiero conservatore di stampo liberista: "There is no such thing as society"
SATURI DI INGIUSTIZIE di Jenny Moix Queralto Un giorno un caso di corruzione, come ce ne sono tutti i giorni, era balzato nella prima pagina dei giornali. Durante un pasto una signora elegante e accattivante di ottantacinque anni, con la sua voce dolce disse: "Grazie a Dio io sto bene, ma quando penso a tutti quelli che non hanno nulla, e vedo come alcuni dirigenti truffino grandi quantità di denaro, capisco che qualche disperato possa commettere qualsiasi sconsideratezza". Le sue parole contrastavano con la dolcezza della sua voce, ma non con l’indignazione che le ribolliva dentro. In questo stesso settimanale, giorni fa, Rosa Montero ha ammesso che, nonostante cerchi sempre di essere misurata nel momento in cui deve scrivere, ha chiamato criminali i parlamentari contrari all’iniziativa legislativa popolare che chiede la copertura di un pagamento per gli sfratti. E, lungi dal ritirare le sue parole, ha ribadito che continua a pensarlo. La sua ira rappresentata i sentimenti di molti cittadini, e in coloro che sono direttamente colpiti quest’ira raggiunge punte insopportabili. Motivazione ed emozione sono due parole che noi psicologi siamo soliti associare. In realtà, Motivazione ed emozione è l’argomento di un corso nella facoltà di Psicologia, il titolo di una rivista scientifica e di diversi libri sul tema. Sono due concetti sovrapposti strettamente intrecciati. Potremmo dire che l’emozione ci attiva e la motivazione ci orienta. Come ominidi, questa combinazione ci ha permesso per migliaia di anni per adattarci all'ambiente. Le emozioni negative come la paura o la rabbia, innescano una serie di processi fisiologici che ci permettono di proteggerci e di difenderci. Questo significa che l'emozione presuppone un’eccitazione fisiologica in grado di motivarci e di spingerci a compiere un'azione. "Ero così arrabbiata, da non poterne più e glie l’ho detto, probabilmente, se non mi fossi arrabbiata, non l’avrei fatto", "Mi sono riscaldata e sono scoppiata", "Se mi raffreddo, so che non voglio fare più niente." A volte abbiamo bisogno di della rabbia per muoverci, ma è una condizione indispensabile? Gli sfratti, la corruzione, l'avidità, i tagli, gli stipendi consistenti di molti politici sono diventati una realtà insopportabile. La collera e la rabbia che sentiamo ci spingono a lottare. Ci mobilitiamo, protestiamo, manifestiamo, nascono iniziative popolari per aiutarsi a vicenda. Queste azioni, che sono necessarie, in molti casi nascono dalla rabbia, dal risentimento che proviamo di fronte a questo panorama vergognoso. Cosa succederà se quel serpente che ci si contorce nello stomaco continuerà a essere la motivazione delle nostre azioni? Forse ci divorerà prima che possiamo cambiare qualcosa. La vita non è giusta e non lo è mai stata. Il senso di una mancanza di giustizia nella psicologia è considerata una distorsione cognitiva. Si tratta di una distorsione caratterizzata dal fatto di considerare ingiusto tutto ciò che non rispecchia le nostre credenze o i nostri valori. Noi ci esasperiamo, proviamo un bisogno di vendetta, quando pensiamo che il mondo sia ingiusto con noi. Il ragionamento tipico è: perché io? Logoriamo la mente cercando di capire le assurdità che accadono intorno a noi, per farcene una ragione. Tutto sarebbe più facile se imparassimo a riconoscere che il mondo è pieno d’ingiustizie, e che alcune possono riguardarci. Affaticare la mente con i perché senza risposta ci consuma. Accettarli fa meno male. Quando attraversiamo momenti difficili e vediamo chi ci aiuta e chi no, ci troviamo di fronte a vere e proprie vere sorprese. Ci fa molto male quando ci aspettiamo qualcosa da qualcuno e non ci giunge niente. Quando tuttavia ricollochiamo questa persona in un altro sito del cervello, quando sappiamo come si comporta, perde allora la sua capacità di farci del male. Se fossimo in grado di accettare la natura umana così com’è, sarebbe forse più facile accettare le ingiustizie (non rassegnarvisi). Possiamo andare avanti solo se sappiamo dove siamo e se accettiamo la realtà così com'è. Occorre cercare di essere attivi a partire da quest’accettazione, e non dal risentimento. Ogni giorno sentiamo sempre più storie su come la difficile situazione che molti stanno vivendo si traduce in un vero e proprio inferno domestico. Nelle quattro mura in cui si convive, grida e insulti volano tra le coppie, i bambini, i nonni. Le emozioni negative ci assalgono e prendono tutto. Siamo animali. Non possiamo smettere di provare emozioni. Come gestire la rabbia, la collera, il risentimento causati dalle disuguaglianze che stiamo vivendo? Non tutti controlliamo le emozioni nello stesso modo. Alcuni sono in grado di metterle da parte, lasciano loro uno spazio limitato. Non le eliminano, al contrario, le riconoscono, piangono se necessario, parlano con un amico. Sentono la rabbia, il dolore. Li guardano, non li evitano, non le fuggono. I sentimenti se li scansiamo diventano più confusi e esplodono più facilmente. Se li consideriamo, i contorni diventano sempre più nitidi, più concreti. Il risentimento è una delle emozioni più amare, e osservarlo da vicino per vederne l’inutilità può aiutarci a lasciarcelo alle spalle. Pochi mesi fa, nel corso di un dibattito in un carcere catalano, un detenuto ha detto di aver vissuto otto anni con un grande risentimento per quel che gli aveva fatto un amico e anche per un incidente che ha coinvolto la sua ex fidanzata. Ha raccontato la sua amarezza corrosiva. "Un giorno mi sono svegliato e mi sono reso conto che tutto questo non aveva senso. Improvvisamente ho voltato pagina con una facilità venuta dal cielo". Il rancore con gli altri serve solo a farci divorare da dentro, e gli altri rimangono gli stessi. Come ha detto giustamente William Shakespeare: "La rabbia è un veleno che si prende perché sia l'altro a morire." Il detenuto, il giorno in cui si sentì sicuro dell'inutilità di quel sentimento vide sparire l’odio che s’incrostava in lui. Quel detenuto aveva vissuto per otto anni in due carceri diversi: quello reale e quello del risentimento. Quale dei due è peggio? Al momento di uscire dalla prigione, Nelson Mandela ha detto: "Uscire e vedere tutte queste persone mi fece sentire furioso per i ventisette anni di vita che mi erano stato rubati, ma lo spirito di Gesù mi disse: 'Nelson, quando eri in carcere eri libero, ora che sei libero non trasformarti nel prigioniero di te stesso. " Mandela ha vissuto ventisette anni rinchiuso in un carcere, ma non in quello del risentimento. La serenità che era riuscito a coltivare in sé gli ha dato la forza di lottare contro l'ingiustizia. La vergogna provocata dalle ingiustizie in chi ne sente o ne legge nei mezzi di comunicazione, la rabbia e l’impotenza in chi le soffre nella propria carne, ci caricano di negatività. Se vogliamo cambiare il mondo, è meglio che ci ricarichiamo con l'energia proveniente dalle piccole gioie di ogni giorno. Anche se attualmente sembrano nascoste, sono ancora lì. Fonte: El pais, 9 giugno 2013 Sì, anche la psicologia può essere, e in effetti è, di destra o di sinistra. La psicologia di destra promuove la sottomissione della vittima perché non cambi l'ordine costituito. Così argomenta Jenny Moix in uno dei suoi articoli in questa sezione della rivista: "La vita non è giusta e non lo è mai stata." "Sovraccaricare la mente con perché senza risposta ci consuma. Accettarli è meno doloroso. "
È una lezione d’immobilismo rivolta a una parte della popolazione. Una delle trappole degli articoli che hanno la pretesa di aiutare è il salto, non esplicito e sistematico, che fanno dal sociale alla persona, in modo che una realtà insopportabile (sfratti, tagli, fame ...) diventa una percezione distorta della realtà da parte di un individuo che non può gestire le proprie emozioni. La psicologia di sinistra è invece quella che restituisce dignità alle donne e agli uomini, dignità che passa attraverso il profondo rispetto per i loro diritti come persone. Fonte: El pais, 23 giugno 2013 La Federazione delle Associazioni per la difesa della salute pubblica (FADSP) disapprova le Linee guida di pratica clinica per l'ADHD
Lo scorso 28 maggio è stato presentato a Madrid il libro bianco europeo sul Disturbo da deficit dell'attenzione e iperattività (ADHD). I professionisti presenti all'evento sostengono che "l’ADHD colpisce circa 1,4 milioni di persone in Spagna (300.000 bambini), che è sottodiagnosticata, che è la causa di un caso su quattro d’insuccesso scolastico, che la qualità della vita migliora dopo la diagnosi precoce e il trattamento e che dovrebbe essere considerata come una malattia cronica al fine di ridurre la spesa delle famiglie per gli psicofarmaci utilizzati per il trattamento, che passerebbe dagli attuali 40-50 euro (95-120 euro di pvp) a 4 euro al mese Questa richiesta sarebbe ragionevole se non fosse per la controversia scientifica che, in Spagna come in tutto il mondo, verte sull'eccesso di diagnosi e di trattamento di questo disturbo, che ha portato a un monito dell'UNICEF e dell’OMS. La richiesta contrasta inoltre con la petizione avanzata dalla Spagna per una giornata mondiale dell’ADHD e anche con il titolo del libro presentato "ADHD: rendere visibile l'invisibile" La richiesta ha provocato un’ondata di proteste, e non si può credere che i bambini vengano utilizzati a tale scopo. Proprio il governo degli Stati Uniti ha aperto un'inchiesta sul possibile collegamento tra questa diagnosi infantile di massa (un decimo degli alunni e un quinto degli studenti americani delle scuole superiori ne sarebbero affetti) e la crescita del numero di case farmaceutiche che commercializzano i prodotti per curarla, che hanno quintuplicato le vendite tra il 2007 e il 2012. In Spagna sono state inoltre presentate delle Linee guida cliniche sull’ADHD nei bambini e negli adolescenti, con le raccomandazioni teoricamente più appropriate per affrontare la diagnosi e il trattamento dell’ADHD. Le Linee guida sono state pubblicate nel 2010 e approvate dal MSPSI, ma come FADSP ne mettiamo in discussione l’indipendenza e la validità, in quanto: 1. C’è una totale mancanza di rappresentatività dei professionisti nel nostro SSN, perché le Linee guida sono state elaborate solo da professionisti catalani. 2. I due coordinatori e tutti gli altri componenti del gruppo di lavoro per le Linee guida sono professionisti dell'ospedale privata e religioso Sant Joan de Deu di Barcellona. 3. Allo sviluppo delle Linee guida hanno partecipato anche rappresentanti della fondazione "no-profit" Generalitat de Catalunya "ADANA" per il sostegno delle persone colpite da ADHD, il cui presidente è Isabel Rubio, membro della famiglia a cui appartiene la casa farmaceutica Rubio, che peoduce uno degli psicofarmaci più utilizzati per il trattamento del disturbo. 4. Il 70% dei dipendenti e il 50% dei revisori esterni delle Linee guida dichiarano conflitti di interesse, e sono stati trovati interessi non dichiarati che ledono tutti i contribuenti. 5. Alcuni partecipanti alle Linee guida che dichiarano conflitti di interesse sono anche autori di articoli che servono come avallo bibliografico per le Linee guida. 6. Il professionista più citato nella bibliografia (fino a 16 volte) è Joseph Biederman, indagato nel Senato degli Stati Uniti per aver ricevuto 1,7 milioni dollari da aziende farmaceutiche tra il 2002 e il 2007, per aver promosso la diagnosi di disturbi psichiatrici nell’infanzia. 7. Non sono presi in considerazione i risultati dell’agenzia basca per le tecnologie sanitarie Osteba sulla "Valutazione della situazione di cura e raccomandazioni terapeutiche in ADHD", dove si afferma che in Spagna vengono fatte prescrizioni non autorizzate, che non si seguono le indicazioni sanitarie e le cautele di base per la prescrizione di metilfenidato, come quelle dell'Agenzia spagnola di medicinali (Autorità competente) e più ampiamente che le Linee guida su questo disturbo non sono attendibili per la la loro bassa qualità. La FADSP disapprova le Linee guida per la gestione dell’ADHD in Spagna e richiede la stesura di nuove linee guida, con una partecipazione professionale pluralistica, senza di conflitti di interesse e basata sulle migliori prove disponibili, date le grandi implicazioni finanziarie, in un momento di forti tagli sui costi sanitari (secondo le aspettative degli estensori del libro bianco solo l’ADHD potrebbe costare 1,2 miliardi di euro all'anno, il 12% della spesa farmaceutica pubblica nel 2012) e per le conseguenze sulla salute attuale e futura dei bambini spagnoli e dei giovani trattati con psicofarmaci fin dall'infanzia. Federazione delle Associazioni per la Difesa della Salute Pubblica 10 giugno 2013 Intervista a François Ansermet a cura di Chiara Rosso
I progressi in campo biotecnologico relativi alla riproduzione umana non sono più appannaggio esclusivo degli specialisti in materia. Le speranze e gli sforzi di milioni di coppie che ricorrono alle tecniche di PMA (procreazione medica assistita) hanno trasformato il tema della “fecondazione in vitro” (FIV). La PMA è oggi divenuta una pratica sociale complessa. Essa tocca le origini dell’uomo, risvegliando fantasmi e desideri sepolti nella psiche umana». Così recitano le righe introduttive del libro dal titolo: Parentalité stérile et procréation médicalement assistée. Le dégel du devenir di F. Ansermet, C.M. Quijano, M. Germond, del 2006 (Genitorialità sterile e procreazione medica assistita. Il disgelo del divenire), oggetto di questa intervista, di cui il celebre Jacques Testart, molto noto in questo campo, ha curato la prefazione. Nella pratica psicoanalitica siamo messi a confronto, in modo crescente, con la sofferenza legata alle difficoltà procreative dei nostri pazienti. Talvolta accompagniamo gli «aspiranti genitori» lungo i meandri emotivi evocati dalle difficoltà che costellano il percorso della fecondazione assistita. Condividiamo gioia e sgomento per i loro successi ed insuccessi (questi ultimi purtroppo frequenti). Ma nel caso di riuscita della tecnica di PMA, che cosa succede dopo? Che cosa si dipana nella relazione tra genitori e figli e quali sono le ripercussioni sulla filiazione simbolica? Questo ed altri interrogativi giustificano la mia intervista a François Ansermet, uno degli autori di questo libro. L’opera dà voce in modo originale a più interlocutori sul tema ed è stata per me una scoperta felice e casuale, in occasione di un congresso parigino. Per esigenze di spazio, limito la mia attenzione alla parte psicoanalitica del libro, segnalando tuttavia l’interesse del contributo offerto dagli altri due autori. La semiologa Quijano ripercorre sapientemente le tracce linguistiche del trauma, insite nei discorsi delle coppie interpellate e il ginecologo Germond ci familiarizza con gli aspetti più scientifici di queste nuove frontiere tecniche. INTERVISTA D.: Professor Ansermet, lei è psichiatra, neuropsichiatra infantile e psicoanalista; assieme al Dottor Marc Germond, ginecologo e responsabile del Servizio di PMA di Losanna e alla Professoressa Claudia Quijano, linguista e semiologa, ha scritto questo lavoro, frutto di una lunga ricerca clinica, il cui scopo è quello di comprendere i movimenti inconsci che sottendono la pratica simbolica della filiazione. La vostra riflessione congiunta si focalizza sulla rappresentazione e quindi sulla relazione inconscia che hanno i genitori con il loro embrione congelato. Le coppie di volontari (23) che si sono sottoposte a questo studio avevano almeno due figli, di cui uno nato con la crioconservazione. Dalla raccolta delle interviste, emerge il disagio dei genitori nell’informare i parenti di questa scelta, profilandosi un conflitto tra il pensiero e l’azione. L’insieme delle tecniche della PMA sembra così diventare l’oggetto di un massiccio diniego. Nell’immaginario dei genitori, come voi sottolineate, viene maggiormente investita la fecondazione piuttosto che la gestazione e passa in sordina il coinvolgimento attivo dei genitori attraverso il prelievo di ovuli per la donna e la masturbazione dell’uomo, come se prevalesse ciò che il futuro genitore subisce piuttosto che ciò che fa. Tra fecondazione e gestazione vi è dunque un «differenziale sessuale» a cui si aggiunge, con il congelamento dell’embrione e con la possibilità di scegliere quando impiantarlo, un «differenziale temporale». Si realizza allora un divario tra il divenire dell’embrione e la genitorialità; la perdita del legame di filiazione, legame già compromesso dalla FIV, ha un effetto di discontinuità sul lignaggio, e innesca così un’onda d’urto che investe anche la generazione dei nonni. Nella vostra ricerca, infine, non mancate di interrogarvi sulle dimensioni psichiche assunte dalla ferita della sterilità. A chiusura di questo mio breve colpo d’occhio vorrei chiederle innanzitutto: Quali sono le ragioni e le circostanze che l’hanno condotta a scrivere questo libro assieme ai suoi colleghi? R.: Ho cominciato la mia carriera lavorativa in ambito perinatale a contatto con la dimensione traumatica connessa alla prematurità. I pediatri neonatologi con cui mi relazionavo non mancavano di sottolineare i grandi progressi realizzati nel campo del trattamento dei prematuri; nascevano infatti neonati con prognosi sempre più favorevole malgrado un peso corporeo al limite della sopravvivenza. Tuttavia ci chiedevamo, una volta scongiurata la problematica vitale, quali traumi psichici avrebbero dovuto affrontare in seguito questi bambini prematuri e i loro genitori? Nel corso di un’intensa attività clinica e di ricerca ci è stato possibile dimostrare come il vissuto traumatico dei genitori rappresentasse un elemento predittivo importante nell’influenzare lo sviluppo del bambino prematuro, al di là del grado del suo grado di prematurità ed in assenza di lesioni cerebrali. In qualità di psichiatra e di psicoanalista questi risultati mi hanno sorpreso, sono rimasto colpito da quanto il trauma dei genitori potesse influenzare l’avvenire del figlio! Negli anni seguenti, all’interno di una équipe composta da chirurghi pediatrici, neonatologi, medici genetisti, neuropsichiatri infantili, ginecologi ostetrici ed esperti in PMA, si è molto riflettuto sulle numerose problematiche connesse alla prematurità e alla diagnostica prenatale. Abbiamo dovuto prendere decisioni difficili nel caso di malformazioni fetali e siamo stati messi a confronto con situazioni delicate nell’ambito della PMA. Quando la PMA era agli esordi, si verificavano spesso gravidanze multiple. Coll’approfondirsi della ricerca si è deciso di ridurre questo inconveniente considerandolo un rischio maggiore rispetto all’affrontare più di un tentativo di PMA. Il lavoro congiunto in seno all’équipe suddetta ci ha permesso di inaugurare una nuova area d’intervento; quella del «campo perinatale» in cui viene sancita la continuità tra medicina riproduttiva, ginecologia ostetrica, diagnostica prenatale e pediatria.(1) Di formazione lacaniana, ho vissuto in un’epoca in cui la psicoanalisi era considerata il riferimento principale nell’ambito della psichiatria infantile. Del resto è difficile orientarsi in questo campo senza conoscenze psicoanalitiche. Già allora, tuttavia, sorgevano le prime resistenze alla psicoanalisi nell’area della psichiatria adulta e in quelle dell’assistenza sociale e della neuropsichiatria infantile. Con il tempo, ho potuto constatare quanto fosse importante affrontare il «campo perinatale» con strumenti psicoanalitici che mettessero in luce il tema del desidero inconscio, del trauma e dell’effrazione di ciò che viene considerato impensabile. Sempre più immerso in questo campo, ho avuto occasione di rivisitare i concetti psicoanalitici classici ribadendone l’utilità e adattandoli alla nuova dimensione. La clinica perinatale si pone dunque ai confini della pensabilità e investe la dimensione simbolica del linguaggio portando nuova linfa alla pratica psicoanalitica. Ho ripercorso la mia storia personale, seppur viziata da una ricostruzione in aprés coup, del resto soffriamo tutti di amnesia infantile e la questione delle origini investe maggiormente il «reale irrappresentabile» rispetto alla dimensione dell’«originario». Non sappiamo da dove veniamo, perché siamo noi e non altri, dove eravamo prima di nascere e via dicendo. Ci confrontiamo di continuo con la dimensione irrappresentabile della morte, come Freud la descrive nelle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, del 1915, oppure ancora in Al di là del principio del piacere, del 1920. Ma per tornare alla sua domanda, ho incontrato Marc Germond nel 1993 e ho lavorato con la sua équipe della PMA a Losanna. Di recente erano state scoperte nuove tecniche tra cui la ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi), realizzata per la prima volta a New York dall’italiano Palermo. Come si è spesso potuto constatare, gli specialisti della medicina riproduttiva si confrontano a domande senza risposta nella loro attività clinica. Mi ricordo, agli albori della PMA, del caso di una paziente che dopo sei anni di trattamento per la sterilità – una durata ottimale visto la tecnica ancor giovane – era finalmente rimasta incinta con la fecondazione omologa (quella eterologa pone altre problematiche ancora riguardo alla filiazione). Dopo i primi mesi di gestazione questa paziente richiese una interruzione di gravidanza. Per l’équipe fu un episodio traumatico ed incomprensibile e questo evento rappresentò un vero e proprio «momento di vertigine» per tutti noi! In quella precisa occasione la psicoanalisi venne convocata «d'urgenza» nel «campo perinatale», campo in cui lo psicoanalista non è uno specialista in più, ma la figura giusta, deputata ad affrontare temi esistenziali fondamentali e delicati, talvolta traumatici che afferiscono alle origini dell’uomo. Mentre la psichiatria mostrava crescenti resistenze alla psicoanalisi, ho potuto incontrare medici e operatori biologi delle biotecnologie di avanguardia, felici di trovare un punto d’incontro con gli psicoanalisti attorno al tema dell’impensabile e dell’irrappresentabile. Ciò avviene quando gli psicoanalisti stessi non si trincerino dietro la roccaforte del loro sapere, sentendosi sotto accusa per essere antiquati e fuori dal tempo e comunque non all’altezza dei bisogni attuali di una scienza soggetta allo statuto della prova. Nel corso della mia collaborazione con Marc Germond ho approfondito la questione della sterilità e della procreazione medica assistita tramite numerosi studi clinici, indagando il vissuto dei soggetti coinvolti. La ricerca clinica in psicoanalisi è molto importante, la clinica rappresenta l’esperienza che si esprime attraverso le varie «singolarità». È auspicabile trovare nuovi punti di riferimento a questa giovane frontiera clinica della PMA. A tal proposito sono ricorso all’aiuto di una semiologa e linguista di impronta «de Saussuriana». Il linguista Ferdinand de Saussure (2) sosteneva che nel particolare si trovasse l’universale. Il caso clinico contiene di per sé un insegnamento: se lo analizziamo dettagliatamente, ritroviamo in esso, pur nella sua specificità, costanti universali. Allora, piuttosto che paragonare dei casi ordinandoli secondo un asse soggettivo non confrontabile, perché non analizzare la stessa serie clinica secondo l’ottica delle loro peculiarità specifiche? Seguendo questo orientamento, il libro è frutto di una riflessione clinica corale alla luce della medicina riproduttiva, del pensiero semiologico e di quello psicoanalitico. D.: Il suo testo è di gradevole leggibilità e presenta uno stile unitario malgrado la scrittura a più mani. Contrariamente all’opinione comune che ci ricorda quanto talvolta siano poco «psicoanalitici» certi professionisti della salute, mi colpisce il taglio «psicologico» del suo libro. Si percepisce un profondo filo conduttore che lega insieme, voi tre Autori. A questo proposito partendo proprio dal titolo, vorrei chiederle due cose: cosa può dirmi sul concetto di «genitorialità sterile» che lei indica come un ossimoro ed in secondo luogo, quale tipo di trauma evoca la sterilità? R.: La nostra ricerca si centra sulla procreazione medica assistita autologa, ciò significa che la filiazione biologica, che oggi occupa un posto centrale nelle nostre rappresentazioni culturali, è conservata. Ripenso a quelle coppie che per le ragioni più svariate vivono situazioni difficili coi loro bambini e che si rivolgono a me con la seguente frase: «Noi siamo dei genitori sterili». Ecco allora che ci troviamo di fronte ad un paradosso, abbiamo dei genitori sterili che hanno avuto bisogno di una procreazione assistita ma che poi hanno un figlio nato da loro! Ma in fondo, quante forme di assistenza alla procreazione conosciamo? C’è il desiderio, l’amore, la sessualità, l’hotel, un periodo di vacanza, una panne di elettricità e, perché no, anche un’assistenza medica. La questione è che questi genitori non riescono a conciliare la loro fertilità, che è stata assistita, con la loro genitorialità. Parlare di «genitori sterili» significa trovarsi di fronte ad un «ossimoro», perché sì, si trattava di genitori sterili che in seguito sono divenuti non sterili grazie alla fecondazione assistita. Da un lato la clinica della PMA mette in rilievo il legame tra l’origine, la sessualità, la procreazione, la gravidanza e la nascita e dall’altro sottolinea l’eterogeneità di questi elementi. Dal punto di vista della mentalità biologica vi è senz’altro una continuità tra gli elementi suddetti mentre da quello psicologico le cose cambiano; siamo di fronte a passaggi di difficile raffigurazione come per esempio quello tra sessualità e procreazione. I bambini e più tardi gli adulti vivono il diniego della sessualità dei genitori, la sessualità non è rappresentabile, essa deve rimanere misteriosa e quasi scomparire. Se dunque sul piano della logica il legame tra sessualità e procreazione è chiaro, non avviene la stessa cosa sul piano soggettivo. Secondo la mia opinione, il problema insito nelle tecniche di PMA è, paradossalmente, proprio quello di porre l’accento sul ruolo della sessualità nella sua (esclusiva) dimensione procreativa, ciò avviene nella misura in cui la sessualità stessa viene aggirata. Questo aspetto sostanzia il dibattito etico, politico e religioso attorno la PMA. Ripensando alle teorie sessuali infantili, notiamo come nella dimensione procreativa, esse presentino la caratteristica di evitare il sesso. Nella immaginazione infantile, il «bambino» esce dalla bocca oppure dall’ombelico oppure ancora dall’ano ma in ogni caso tutto accade da solo. Mi capita di affermare in modo scherzosamente provocatorio che, alla fine, siamo tutti figli della PMA! Infatti è molto difficile ammettere che la sessualità abbia avuto un ruolo determinante nella nostra nascita. Ricordiamoci di come Freud abbia insistito sulla sessualità nello sviluppo infantile dei bambini e di come Jung stesso gli abbia rimproverato il suo pansessualismo. La PMA è «scomoda» perché sottolinea il posto occupato dalla sessualità nella procreazione; condizione ineludibile e a cui non possiamo sottrarci, ce lo dimostra il fatto di averla aggirata. I genitori sterili che si rivolgono alla PMA soffrono di un eccesso di «significatività sessuale» che incombe sull’origine dei loro bambini, mentre gli altri genitori dimenticano questo aspetto. I genitori che si rivolgono alla PMA hanno avuto difficoltà procreative e hanno fatto sesso a richiesta fino alla nausea. In questa particolare pratica clinica la questione sessuale si rivela essere fondamentale. Qui non si tratta solo di affrontare il problema dell’evitamento della sessualità quanto quello di porsi più domande rispetto ad altre condizioni cliniche della perinatalità. Per quanto concerne la PMA, dovremmo imboccare la strada della rimozione. Quando cominciamo a dire: «Il mio bambino è nato con...» ecco che l’enigma del sessuale si presentifica. L’amore o il bambino suppliscono alla impossibilità di pensare il rapporto sessuale. D.: Nel vostro libro ipotizzate la presenza di un trauma identitario per le persone coinvolte dalla PMA. È un trauma che destabilizza le fondamenta dell’ identità del soggetto nella misura in cui tocca le origini. Esso va al di là delle difficoltà procreative e delle ripercussioni sulla filiazione. Anche in base alla mia esperienza di confronto con colleghi o in ambito seminariale concordo con gli aspetti che lei descrive e ho notato inoltre l’emergere di intensi sentimenti di rabbia. Quale è la sua opinione in proposito e quali sono le sue riflessioni rispetto al vissuto dei genitori? R.: Sul piano identitario notiamo come spesso, a monte degli aspetti propriamente «traumatici» della PMA, siano in gioco le teorie sessuali infantili rimosse; si rischia dunque di fare confusione tra la causa e l’effetto. Nel caso estremo della interruzione di gravidanza di cui parlavo, si è visto che il rifiuto della gravidanza da parte della paziente era legato alle fantasie sulla procreazione e ai suoi aspetti traumatici. È importante valutare come venga vissuta soggettivamente la sterilità; si tratta di una castrazione, di uno stato di impotenza? Che cosa è esattamente la sterilità? La sterilità rappresenta l’interdetto di procreare come ricorda il mito di Edipo. Inizialmente, nel mito, Laio suscita l’ira degli dei per la sua relazione sentimentale con l’adolescente Crisippo, e viene punito con il divieto di procreare. Il mito narra che Laio non si curi di questo divieto e che un giorno, ubriaco, ingravidi la sterile Giocasta. Un grande ellenista, Jean Bollack, sottolinea nel mito edipico l’aspetto fondamentale del divieto di procreare. La trasgressione del divieto attacca la filiazione provocando l’estinzione della discendenza. Con questo voglio dire che probabilmente, coloro che si rivolgono alla PMA vivono la sterilità come un «divieto» alla procreazione; potremmo anche chiederci se la procreazione non inneschi un movimento atto a contrastare questo divieto. Per quanto concerne poi il vissuto genitoriale trovo interessante il modo in cui i padri parlano della PMA. Ho notato in loro una ripetuta tendenza a fare confusione tra l’ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi) e la IAD (iniezione artificiale di donatore). Dunque i padri, per il solo fatto di essere separati dai propri spermatozoi li confondono con gli spermatozoi di un terzo come se si sentissero defraudati del loro sperma. Alcuni padri dicono: «Avremmo potuto scegliere un altro spermatozoo». In questa situazione, al posto del caso spunta l’idea reificata di poter «scegliere»; la biologa ha scelto quello spermatozoo piuttosto che quest’altro; è l’equipe di terzi, dei tecnici PMA, ad aver scelto lo spermatozoo che darà origine a quel bambino e non a un altro. Si potrà allora attribuire la paternità o la «colpa» all’équipe. Tutte queste situazioni sono accomunate dal fatto che il padre tende ad auto-squalificarsi. Sul piano tecnico, l’ICSI consente l’assoluta la certezza di paternità, sempre che l’équipe sia, beninteso, ispirata a una corretta deontologia medica. Ovviamente si spera che non si realizzi ciò che Milan Kundera descrive nel suo romanzo Il valzer degli addii (3) dove il protagonista, ginecologo, utilizza il proprio sperma per la IAD! Nella PMA il padre deve ristabilire «l’incertezza» per esercitare la sua funzione paterna che è pur sempre connessa al fatto di non esser mai certa. Ed è paradossale l’idea di reintrodurre l’incertezza paterna nel cuore della certezza «tecnica» dell’ICSI! Eppure il padre affronta la propria elaborazione personale tramite la costruzione di uno scenario fittizio perché, mai come in questo caso, la genitorialità è una finzione. Ritornando al tema del rapporto tra genitorialità e sessualità potremmo dire che da circa una ventina d’anni la «genitorialità» è un concetto di successo, da quando cioè il bambino occupa un posto di importanza crescente nella nostra società. Ma più si mette l’accento sulla genitorialità, meno lo si mette sulla sessualità. Come neuropsichiatri infantili di ispirazione psicoanalitica abbiamo approfondito i concetti di genitorialità e di maternità a contatto con l’infanzia abbandonata e le madri depresse. La nostra professione del resto si è sviluppata per affrontare un deficit di genitorialità. La mia opinione è che la questione della sessualità maschile e femminile andrebbe ripresa all’interno della PMA poiché il concetto di genitorialità è insufficiente. Va ritrovata la necessaria separatezza tra l’uomo/padre e la donna/madre. E se la madre coltiva il suo esser donna è forse grazie alle cure del marito/padre. Ma capita che questa separazione tra la figura della madre e quella della donna venga ostacolata da un’ideale schiacciante di maternità e che la stessa cosa accada per l’uomo. Vi sarà allora «troppa» madre e «troppo» padre, e i genitori, fortemente impregnati dal loro ruolo genitoriale, appesantiscono il bambino. Qualcuno della mia famiglia che aveva partorito da poco mi mandò il messaggio seguente: «Sono dal parrucchiere, faccio rinascere la donna dalla madre!». Ecco un esempio della separatezza di cui parlavo prima. Nella PMA l’ideale di genitorialità è ingombrante e, a seconda dell’ottica dei professionisti che vi lavorano, possono sorgere difficoltà allorquando il legame sessuale tra l’uomo e la donna viene messo in secondo piano. Del resto a troppo volere si uccide il desiderio! La clinica della PMA ci invita a rivisitare in senso psicoanalitico le categorie del volere e del desiderare. Il desiderio è inconscio, va e viene come un furetto. E quando qualcuno mi dice: «È stato un bambino desiderato», credo che sia sicuramente un bene avere figli desiderati rispetto a quelle situazioni in cui i bambini sono maltrattati e rifiutati, tuttavia mi sembra necessario che le origini rimangano avvolte da un alone enigmatico e misterioso. D.: Le sue parole mi fanno venire in mente un detto che suona più o meno così: «È impossibile cogliere l’attimo in cui l’erba cresce, bisogna distogliere lo sguardo e costatarne, solo dopo, l’avvenuta crescita». In altre parole anche i bambini per crescere, così come l’erba, dovrebbero essere talvolta dimenticati e tenuti al riparo da uno sguardo di «abbagliante» premura, così carico di aspettative... R.: Sono d’accordo, questi bambini devono soddisfare delle attese, in caso contrario sorgono problemi. Un altro scoglio presentato dall’aspetto della sterilità e da come viene trattato all’interno della PMA è quello di rinviare continuamente il bambino alle sue origini. Una espressione classica di certe madri è la seguente: «Vieni qui, piccolo findus!», dove la madre sottolinea il legame tra il figlio e le sue condizioni di procreazione. Anche i tecnici della PMA e gli psicoanalisti corrono questo rischio adottando un atteggiamento conservatore. D.: A proposito della simbolizzazione, vi è un capitolo del suo libro – L’Edipo o il sopravissuto – in cui lei mette in luce le caratteristiche «eccezionali» di questi bambini, così come vengono dipinti dall’immaginazione dei genitori. Sono dei bambini «speciali» sopravvissuti alle tecniche di congelamento-scongelamento. Mi ha colpito l’esempio di una madre che, fantasticando su liti tra bambini, immagina che a suo figlio possa venir detto: «Taci tu che sei stato congelato!». Si direbbe dunque che al di là del destino eroico del bambino o di una sua diversità che potrebbe costituire un ostacolo evolutivo, la rappresentazione che di lui hanno i suoi genitori coincide con l’idea di «una traccia incisa come un solco nella mente e nel corpo in cui si registrano nuove e immaginarie coordinate relative al caldo e al freddo, facenti parte integrante dello schema corporeo». R.: Nel rinviare mentalmente questi bambini al loro luogo d’origine si può correre il rischio di «ri- congelarli». Non mi stanco mai di segnalare il problema legato ad un eccesso di conoscenza, al proliferare di immagini e di connessioni del tipo causa-effetto. Nel campo delle PMA il professionista può avere, in maniera più o meno grande, la responsabilità di indurre, provocare e quasi di prescrivere un legame biunivoco e continuativo tra la PMA e il divenire del bambino. Il professionista della prima infanzia che nel corso di una visita al piccolo paziente apprende le circostanze della sua nascita, rischia di sviluppare una «proiezione retrospettiva». Ciò accade di frequente da parte dei genitori, il problema è quando anche i curanti cedono a questa tentazione. D.: Lei non crede che le persone implicate a diverso titolo nella PMA si difendano in qualche modo dal trauma? R: È molto probabile che s'instauri un meccanismo di difesa nei confronti del trauma poiché tutto ciò che avviene in questo campo tocca profondamente ed in modo improvviso la soggettività di chi è coinvolto, di noi professionisti e degli altri operatori. Del resto non è perché un bambino è stato procreato alla tal ora, da tale équipe, che le sue origini diventino per questo spiegabili. Affinché il «divenire» possa spiccare il volo bisognerà ristabilire l’enigma delle origini. D.: Nel suo libro vi è un passaggio che ricorda il ruolo dell’amnesia nell’ambito delle PMA. Forse si dovrebbe oscurare un pochino una tecnica così illuminata dai riflettori, in altre parole «velare» le origini. R.: Ottima immagine! Bisogna rimettere il «velo» alle origini, in fondo se la prospettiva psicoanalitica è quella di svelare i meccanismi del trauma, questa pratica clinica della PMA ci mostra, come lei ricorda, la funzione dell’amnesia e del velo, necessari per permetterci di riappropriarsi della nostra soggettività. D.: A questo proposito, ho apprezzato molto una sua frase verso la fine del libro: «L’amnesia può forgiare una culla di libertà per questi genitori e i loro figli (...) sarà necessario conservare un posto vacante per un cammino inedito e bisognerà prevedere, letteralmente, un futuro imprevedibile!». R.: Nel campo delle PMA è dunque importante limitare la nostra conoscenza rispetto alle origini, non dovremmo in quanto psicoanalisti divenire specialisti nel predire il passato! Spesso ci può capitare di trasformare l’ipotesi in una prescrizione. Uno dei miei primi casi, seguito in collaborazione con l’équipe di Germond, era quello di un bambino nato con un rene policistico. Sia il chirurgo sia l’équipe avevano chiamato in causa il legame con la PMA e in un periodo successivo, la medicina riproduttiva venne aspramente criticata per questo fatto. Questo è un esempio della trappola insita in un legame troppo deterministico, un legame che dobbiamo contrastare perché ciascuno di noi possa sognare liberamente il proprio avvenire e diventare artefice del suo destino. L’esperienza clinica e le conoscenze acquisite debbono aiutarci a non trasformare in un «destino» la PMA. A questo proposito nel mio primo libro su questo argomento (4) sottolineavo il rischio di passare dallo spavento delle origini alla fascinazione per il destino. D.: Il nostro colloquio sta per terminare e ringraziandola per la generosità e ricchezza del suo contributo volevo, in ultima istanza, sottolineare il ruolo assegnato all’intervistatore nella sua opera. L’intervistatore riflette sui risultati delle interviste ai genitori, in seno ad una équipe di lavoro. È come se fossero necessari più livelli operativi per elaborare «in progress» gli aspetti traumatici del materiale raccolto. La struttura stessa dell’intervista, composta da più domande secondo una griglia stabilita, rappresenta forse la modalità più adatta per gestire un materiale così «scottante»? E l’intervistatore, potrebbe assumere il ruolo di un «terzo»? A questo proposito mi collego a quanto lei sottolinea circa la necessità di introdurre una triangolazione, pur sempre instabile e a rischio di scomparsa. Nel capitolo dal titolo «Ouranos/Cronos o della riproduzione speculare dell’onnipotenza» lei ci ricorda come il legame di filiazione si strutturi normalmente sulla base di una relazione a tre, per un minimo di tre generazioni diverse che si sviluppano secondo due linee genealogiche, una per ogni sesso. Senza il «terzo», dunque, il legame di filiazione verrebbe risucchiato in una dimensione speculare tale da diventare solo una «Immagine riflessa che si specchia negli occhi del genitore onnipotente». Della triade madre/padre/bambino nell’immaginario parentale non resterebbe allora che la dualità: genitore onnipotente /bambino. Quale è la sua opinione? R.: È chiaro che attraverso il lavoro di équipe creiamo un altro scenario, un artifizio, come avviene in psicoanalisi dove non è tanto il divano di per sé stesso che «fa» la psicoanalisi ma il divario che esso contribuisce a creare tra analista e paziente costituendo così una parte del setting. Allo stesso modo, più livelli di intervento creano un divario, articolano uno spazio. Tornando ad un tema che mi è caro, mi piace pensare che le nostre riflessioni conducano soprattutto ad una elaborazione della causalità. Come ho già sottolineato, noi psicoanalisti tendiamo a collegare la causa con l’effetto anche se sappiamo che non sempre è il caso. In filosofia per esempio, vi è il paradosso del «futuro contingente». Ad un momento X un certo avvenimento può o meno avere luogo. Ecco la contingenza. Tale spermatozoo, tale ovulo. Una volta che l’incontro si è realizzato non è possibile tornare indietro, il contingente dunque, diventa necessario. Per il clinico e per l’individuo si profila un’insidia perché se il contingente che scaturisce dal caso è divenuto necessario, si potrà pensare in modo analogo, che la stessa contingenza rientri già nella categoria del necessario. D.: Come direbbe Aristotele: «Il passato è necessario e il futuro è possibile?» R.: Assolutamente sì! A proposito di questo paradosso del «futuro contingente» sia i genitori che noi professionisti cadiamo nella trappola di poter avere tutto sotto controllo allorquando non si può far altro che trasformare qualcosa di contingente in qualcosa di necessario, come ho appena detto. Una volta che il bambino arriva non si può tornare indietro ma è chiaro che quel bambino avrebbe potuto non esserci. Tutto ciò rappresenta un momento di vertigine per l’essere umano, un momento di cui noi, troppo esperti dei legami consecutivi e diretti, dovremmo tener conto. Sarebbe importante adeguare la nostra scienza alle risposte del soggetto piuttosto che insistere sulle cause determinanti. Riconsegnando le origini al mistero, inscriviamo nuovamente il futuro nel campo del possibile. 1 La «Collection La vie de l’enfant», curata da Sylvain Missioner (ed. érès), raccoglie pubblicazioni su questi argomenti. Tale Collezione viene fondata nel 1959 da Michel Soulé. 2 F. de Saussure, svizzero, noto per il suo celebre Corso di linguistica generale, del 1915, sviluppò la linguistica strutturale a cui si ispirò Lacan nella sua interpretazione dell’opera freudiana, introducendo l’uso del concetto di «significante». Il figlio Raymond, brillante psicoanalista è uno dei fondatori della Società psicoanalitica di Parigi, nel 1926, assieme a Charles Odier. 3 M. Kundera (2004). Il valzer degli addii. Milano, Adelphi (trad.it. Serena Vitale). 6 4 F. Ansermet (1999). Clinique de l’origine. L’enfant entre la médecine et la psychanalyse. Lausanne, Payot. (trad. ital) Clinica dell’origine. Il bambino tra medicina e psicoanalisi. Milano, FrancoAngeli, 2004. Da tempo in Italia, in Spagna, in Francia, il problema dell'autismo è venuto all'attenzione della politica, che si è mossa sul piano amministrativo per promuovere piani d'intervento, diversi nei vari paesi, ma che hanno dovunque suscitato polemiche. Ricevuiamo e volentieri pubblichiamo il comunicato dell'Association des Psicholoques freudiens, che fa valere in questo senso una posizione critica
Comunicato stampa dell’Association des Psychologues Freudiens Marie Arlette Carlotti, vice Ministro per la disabilità e la lotta contro l'emarginazione, ha presentato giovedì 2 maggio 2013 il terzo piano per l’autismo che sarà valido per il periodo 2013-2017. Il progetto segna la volontà amministrativa di coartare le pratiche di sostegno e cura. Al tempo stesso le osservazioni del ministro riportate dalla stampa – "Sia chiaro, saranno forniti i mezzi per funzionare solo alle istituzioni che lavoreranno nel senso in cui chiediamo loro di lavorare" – confermano una volontà di gestione e d’intromissione nel dibattito scientifico sull‘autismo, a scapito dei bambini e delle loro famiglie. L’associazione Psicologues Freudiens non ha nessuna intenzione di fare pressione. Chiede solo il rispetto dei diversi approcci all'autismo, nel momento stesso in cui negli Stati Uniti, che per certe politiche servono come termine di paragone, vengono utilizzati come esempio di ciò che si fa di meglio in questo campo. Gli studi anglosassoni indicano tuttavia un’evoluzione della situazione, dopo il momento in cui venivano erogate sovvenzioni esclusivamente per le pratiche educative. Il terzo livello del piano sull’autismo, pur pretendendo di "recuperare un ritardo" commette in realtà gli errori che nel contesto degli Stati Uniti risalgono ad anni fa. Veniamo a sapere, al tempo stesso, che il Ministro Carlotti sta usando il proprio archivio elettronico di associazioni di genitori per collegare questo piano alla sua candidatura come sindaco di Marsiglia. Questa confusione non può certo rassicurare i professionisti, in particolare gli psicologi freudiani, sulle vere intenzioni di questo piano. Psicologues freudiens fa notare di aver partecipato con entusiasmo, il 2 giugno 2012, al Forum sul problema clinico dell’autismo, organizzato dall’ACF del Massiccio centrale a Tulle, insieme con l'Istituto Psicoanalitico di Bambino . Questo Forum si è tenuto, grazie agli auspici di Francois Hollande, nella sala Corrèze all'Hotel du Departement "Marbot", come ricorda Jean-Robert Rabanel, presidente di IR3, nella sua lettera aperta al Ministro. L'Associazione Psicologues freudens, i suoi membri, la sua segreteria, dichiarano di rifiutare la prospettiva mercantile di un piano che per lo Stato sancirebbe la rinuncia a una politica pubblica sull’autismo di più ampio respiro. Siamo a disposizione del Ministro e dei parlamentari manifestare questo rifiuto e testimoniare loro del lavoro quotidiano che svolgiamo nelle unità terapeutiche, nelle associazioni o negli ospedali in cui siamo presenti. Nathalie Georges Lambrichs, Presidente Stella Harrison, vice Presidente & René Fiori, vice-Presidente Consiglieri: Isabelle Galland, Luc Garcia, Teresa Petitpierre, René Saboural http://www.psychologuesfreudiens.org/ Inquietante proposta del Dipartimento di Salute Mentale di Oristano che si prefigge di “rilanciare” l’elettroshock.
Oristano. L’elettroshock “è persino preferibile, rispetto ai farmaci, per le donne in gravidanza”, questa l’agghiacciante dichiarazione riportata dalla stampa locale del Direttore del Dipartimento di Salute Mentale Giampaolo Minnai. Dopo l’inquietante iniziativa del Dipartimento di Salute Mentale di Oristano che pochi giorni fa ha organizzato un convegno per rilanciare la barbara pratica dell’elettroshock, il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani ha deciso di intraprendere una serie di iniziative, inclusa la segnalazione alle autorità competenti, al fine di difendere le persone affette da disagio mentale. Secondo quanto riportato dalla stampa locale, il convegno sull’elettroshock organizzato all’ospedale “San Martino” di Oristano appare essere una sfacciata promozione di questa “pratica” che, tra l’altro, viene effettuata proprio in tale sede. L’opera di disinformazione attuata dagli organizzatori è sconvolgente. Per prima cosa l’uso stesso della parola “terapia elettroconvulsivante (TEC)” è fuorviante, dato che si tratta sempre e comunque di un elettroshock camuffato con farmaci bio-rilassanti che rendono la procedura meno sgradevole alla vista, ma certamente non meno dannosa. E un altro mito diffuso dagli organizzatori è che l’elettroshock non sia redditizio. A questo proposito ci chiediamo quali siano gli introiti dell’ospedale per gli elettroshock amministrati nello stesso e soprattutto chi abbia finanziato il convegno. Il nostro comitato ha informato anche la dirigenza di CittadinanzAttiva in merito al loro presunto sostegno all’elettroshock pubblicizzato alla stampa locale. Ci risulta infatti che Cittadinanzattiva assieme a Libera, Unasam, Legacoopsociali aderisca alla campagna di Psichiatria democratica “No elettroshock” che si batte contro tale pratica disumana, distruttiva e altamente lesiva dei diritti dei pazienti. Nelle parole degli organizzatori riportate dalla stampa, fioccano anche altre affermazioni prive di fondamento in cui, a dispetto del recente documento delle Nazioni Unite che include l’elettroshock tra gli strumenti di tortura, si sostiene addirittura che l’elettroshock abbia “meno effetti collaterali e migliori risultati clinici” o addirittura che “migliori l’attività cerebrale e dia migliori effetti sul sistema nervoso centrale”. Ci chiediamo come sia possibile che queste affermazioni provengano da medici regolarmente assunti nel sistema sanitario pubblico e che si presume abbiano una laurea universitaria. Ci auguriamo vengano smentite e chiarite esaurientemente dagli interessati. Infatti, uno studio del 14 marzo 2010 “L’efficacia della terapia elettroconvulsivante: una revisione della letteratura” di John Read (Dipartimento di Psicologia, Università di Auckland – Nuova Zelanda) e Richard Bentall (Dipartimento di Psicologia, Università di Bangor, Galles – Regno Unito) è giunto a queste conclusioni: «Una revisione precedente, opera di uno degli autori di questo testo (Read, 2004), giunse alla conclusione che: “Non esiste assolutamente nessuna prova che questa terapia abbia alcun beneficio per nessuno che duri più di qualche giorno. L’ECT non previene il suicidio. Il beneficio che alcuni possono trarne nel breve periodo semplicemente non giustifica correre i rischi che la terapia comporta.” … Non c’è assolutamente nessuna prova del fatto che la terapia abbia effetti benefici per alcuna persona oltre il periodo del trattamento, o che prevenga il suicidio. Il brevissimo beneficio ottenuto da una piccola minoranza non può giustificare i rischi significativi a cui sono esposti tutti i pazienti sottoposti a ECT.» Secondo la nota del Ministero della sanità alle regioni del 15 febbraio 1999 la letalità della TEC è di circa 2-3 per 100 mila applicazioni somministrate e di 1 per 10 mila pazienti trattati. Sono state poi riscontrate lesioni celebrali, perdita di memoria (a volte transitoria) e di identità e, comunque, nell'80 per cento dei casi il paziente è soggetto a ricadute. L'elettroshock, pertanto, ben lungi dall'essere una terapia efficace, si caratterizza per l'invalidazione intellettiva e sociale che provoca ai pazienti, degradandone la dignità e compromettendone il reinserimento nella collettività. Il nostro comitato continuerà l’opera di segnalazione e informazione, finché gli organizzatori del convegno non saranno stati correttamente sanzionati per la loro opera di disinformazione, e questa pratica brutale non sarà stata abolita in tutta la Sardegna e nel resto d’Italia. Per maggiori informazioni sull’elettroshock: http://www.ccdu.org/ect/elettroshock Silvio De Fanti Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus www.ccdu.org |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28, 20131 Milano tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo. Archivi
Luglio 2023
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